Ieri abbiamo conosciuto le motivazioni in base alle quali la Consulta ha decretato illegittimo il blocco per la parte economica delle procedure contrattuali e negoziali dei contratti pubblici. Tre milioni di dipendenti pubblici, dopo sei lunghi anni, potranno tornare a vedere aumenti retributivi in busta paga. In linea di massima è giusto così, perché i governi che si sono succeduti in questi anni hanno usato le retribuzioni del settore pubblico come un bancomat. Uno dei tanti, a dire il vero: basti pensare alle imposte immobiliari (non solo sulla prima casa), ed al taglieggio propagandistico attuato soprattutto dal governo Renzi sui frutti del risparmio. Ma non tutto suona benissimo, a lume di realtà prima che di logica, nella vicenda che ha portato a questa sentenza della Consulta.
Basti una sola considerazione: nelle motivazioni, la Consulta sostiene che il blocco abbia rappresentato una violazione dell’articolo 39 della Costituzione, quello sulla libera organizzazione sindacale. Ai sindacati pubblici sarebbe stato vietato l’esercizio di un diritto negoziale, quello a contrattare aumenti retributivi. Un articolo, il 39, peraltro quasi completamente inapplicato, ma sono dettagli. Per la Consulta, il blocco della parte economica della contrattazione collettiva introdurrebbe per i lavoratori pubblici una disciplina “irragionevole e sproporzionata”, discriminandoli rispetto ai lavoratori del settore privato.
Ecco, i lavoratori del settore privato. Molti dei quali, in questi lunghi anni di crisi, hanno perso il lavoro, mentre i loro colleghi “superstiti” negoziavano (si fa per dire) corrispettivi monetari spesso simbolici a fronte di modifiche anche sostanziali di orari e forme di organizzazione del lavoro. Nel pubblico impiego ciò non è avvenuto. Si è barattata la sicurezza dell’occupazione con una perdita di potere d’acquisto, che è risultata piuttosto contenuta anche grazie (anche qui si fa per dire) alla disinflazione che ha caratterizzato il nostro paese.
Se nel settore pubblico operassero contratti privatistici, con possibilità di procedere a licenziamenti collettivi effettivi, probabilmente in questi anni avremmo assistito ad un aggiustamento di prezzi e quantità: più uscite dagli organici della P.A. e contrattazione collettiva anche sulla parte monetaria. Ovviamente non si può chiedere alla Consulta di sentenziare sulla base di simili considerazioni, o di usare la teoria delle opzioni reali per giungere a comprendere che forse ai pubblici dipendenti tanto male non è andata, in questa crisi. Né vogliamo qui partecipare allo stucchevole giochino di società che vede tali dipendenti alla radice dei mali di questo paese, sia chiaro.
Con tutta probabilità la Consulta ha voluto mandare un messaggio allo Stato datore di lavoro: non cullatevi negli automatismi rendendo permanente l’emergenza. Ognuno recita la propria parte in commedia, dopo tutto, e la Consulta riesce sempre a realizzare degli splendidi equilibrismi, ad esempio sulla “retroattività selettiva” delle proprie sentenze. Ma forse questa decisione dovrebbe far riflettere il legislatore sull’opportunità di omogeneizzare il più possibile il rapporto di lavoro pubblico e quello privato, al netto delle innegabili peculiarità del primo. E già che ci siamo, dare completa attuazione all’articolo 39 della Costituzione, per pubblici e privati, non guasterebbe. Peraltro, nel settore privato, la lenta evoluzione verso la riforma della rappresentanza sindacale appare destinata a dare una forma di attuazione indiretta a tale articolo della Carta, o più verosimilmente a superarlo. Omogeneizzare pubblico e privato non sarebbe una cattiva idea.
P.S. La Consulta ha precisato che la parte economica della contrattazione collettiva pubblica dovrà comunque “tenere conto dei vincoli di spesa”. Ottimo, Monsieur De Lapalisse sarebbe entusiasta. Ma non è che poi, quando l’Aran va a negoziare coi sindacati e dice “bambole, non c’è un euro”, i medesimi urlano alla violazione dell’articolo 39, vero?