In un’intervista comparsa oggi sul Sole, il presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, ha detto che “l’Italia è l’unico paese che sta chiedendo tutte le forme possibili di flessibilità”, e che la flessibilità medesima “dovrebbe essere utilizzata come eccezione e non come regola. Per ragioni di credibilità”. Proprio questo è il punto: un paese che cresce ancora molto poco, su base quasi esclusivamente congiunturale, sulla spinta di stimoli esterni irripetibili, ed il cui governo pare aver scoperto la pietra filosofale: fare deficit con più deficit.
In questa bolla mediatica e comunicativa, segnaliamo il risveglio di Confindustria, che ha appena scoperto che la “crescita” italiana è in decelerazione, e si chiede “che fine abbia fatto l’ottima annata turistica”, visto che pare essere stata inghiottita nell’assai poco esaltante Pil del terzo trimestre. Ah, saperlo. Poi la Commissione europea, che a sua volta ha scoperto che il nostro paese ha un elevato livello di debito pubblico che si interseca con la flessione del potenziale di crescita ed una dinamica della produttività che resta esangue. Poi il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che osserva che dal welfare italiano, modellato sulla figura del lavoratore dipendente a tempo indeterminato, restano assenti le politiche attive del lavoro, mentre sulla congiuntura aggiunge che “una volta che questi segnali positivi si saranno consolidati, non dovremo leggere in questo rimbalzo ciclico, seguito a una lunga e pesante recessione, l’indicazione che sono state risolte le difficoltà di crescita dell’economia italiana”.
In estrema sintesi: sotto la superficie i problemi restano tutti. Non poteva che essere così, visto che ogni trasformazione richiede tempo, molto tempo. Il punto è che quella italiana non è una trasformazione, almeno nel senso sostanziale del termine; che le “riforme” sin qui attuate non sono tali o non sono tali da indurre aumenti strutturali del potenziale di crescita; che esiste una discrasia ampia e crescente tra parole, fatti, e dati economici. Anzi, negli ultimi mesi il governo Renzi, consapevole che la macchina perde colpi, sta decisamente puntando sul deficit aggiuntivo, a volte anche con esiti grotteschi e deformi, come la tarantella sulla “clausola migranti” che doveva andare a ridurre l’Irap nel 2016 e che ora -forse- andrà a finanziare gli 80 euro alle forze dell’ordine e la mancia ai diciottenni, tutto rubricato sotto la voce “sicurezza”, dopo le atrocità di Parigi.
Sin quando avremo la coperta della Bce e della disinflazione da petrolio, con un mercato del lavoro stabilizzato, potremo reggere su questa via dell’autocompiacimento che sconfina nell’autoinganno. Il problema è che il paese è e resta esausto, e persino il Padreterno avrebbe seri problemi a rilanciarlo. Nel frattempo, dopo alcuni giorni di dignitoso silenzio, a fronte di dati macro non esaltanti, oggi arriva la notizia della fiducia dei consumatori italiani a novembre ai “massimi degli ultimi 20 anni”, ed è subito un tripudio di fischietti e bandierine, anche se la fiducia è più sul paese che sulle proprie condizioni personali, se quella delle imprese flette e se il trend delle vendite al dettaglio resta piatto.
Interessante notare che, tra le file degli entusiasti, c’è a pieno titolo l’austero Financial Times, e non da oggi. Ogni riferimento a Renzi è preceduto rigorosamente da termini quali “energetic“, che realizza “broad reforms, from labour market to judiciary” (prego?), e che ha portato la disoccupazione “down to multi-year lows” (prego, again?). Evidentemente, o i corrispondenti dall’Italia del Ft sono coinvolti nel clima neorinascimentale che tutti e tutto pervade, attovagliamenti conviviali romani inclusi, oppure le notizie relative al nostro paese vengono “cucinate” ricorrendo all’archivio recente, aggettivi ed iperboli incluse.
Come che sia, la strada resta lunga, ventosa e disseminata di miraggi. Ed il vento potrebbe staccare anche frammenti di cornicione, siate prudenti.