Il triste compleanno del governo May

Ieri Theresa May ha “festeggiato” il primo compleanno del suo governo. Da festeggiare c’è assai poco, ovviamente, visto che sono stati dodici mesi buttati tra proclami senza senso del tipo “Brexit means Brexit”, una scoppola elettorale di proporzioni epiche, un partito sempre più lacerato, un’economia in evidente rallentamento rispetto alla robusta espansione in atto in Eurozona. Ma il bello deve ancora venire.

In questi mesi siamo passati dal “meglio nessun accordo che un cattivo accordo”, a “cerchiamo un regime transitorio per gestire al meglio l’uscita dopo la scadenza dei due anni dall’attivazione dell’articolo 50”. Nel mezzo, abbiamo avuto dichiarazioni da pub alle cinque di venerdì pomeriggio, provenienti dalle file dei Brexiter, del tipo “cercheremo di mantenere accesso al mercato e unione doganale per singoli settori, ad esempio auto ed aerospaziale”.

Poi abbiamo avuto la reazione alle richieste Ue di iniziare a parlare di accordi commerciali solo dopo aver fissato il prezzo della “rescissione contrattuale” britannica dalla Ue. Prima derisione e sdegno, poi il riconoscimento per iscritta da parte di Downing Street che “il governo ha delle obbligazioni verso la Ue che sopravvivranno al ritiro, e che andranno risolte”. Impagabile il capo negoziatore della Ue, Michel Barnier: “sento l’orologio ticchettare”.

Nel mezzo, lentamente ma inesorabilmente, avanza l’incertezza, che sta avvolgendo l’economia britannica. La manifattura di auto, forza trainante dell’industria, nel primo semestre si è praticamente fermata, i nuovi investimenti ridotti ad un rivolo. Più che comprensibile: i costruttori globali allocano investimenti alle aree nazionali in cui operano, ma se un’area è un enorme zona grigia che rischia di diventare un buco nero, meglio dirottare altrove. Le gioie del capitalismo globale.

La povera May si era presentata come una macchina da consenso per l’intero spettro socioeconomico del paese. L’austerità ma anche gli operai nei cda delle imprese. La Britannia che minaccia la Ue di diventare la nuova Hong Kong o Singapore ma anche la nuova Svezia delle conquiste dei lavoratori e del welfare. Promesse da truffatori di fiera paesana che noi italiani conosciamo bene e che ci beviamo da decenni. Sembrava impossibile che il glorioso e pugnace popolo britannico potesse finire come i piccoli italiani. Eppure.

Poi May si è fatta scrivere un manifesto elettorale che prevedeva l’esproprio dell’asse ereditario per gli anziani così sfortunati da essersi fatti cogliere da demenza ed altre patologie da lunga degenza, in seguito prontamente ritirato. E ritirato anche l’impegno a porre fine al Bengodi dei pensionati, col “triplo lucchetto” che regala ogni anno una ricca scala mobile, mai inferiore al 2,5%, cadesse il cielo. Ora May è alle prese col crescente nervosismo della Confindustria britannica, che vede scorrere la sabbia nella clessidra con crescente angoscia.

Ma le cose vanno benissimo per l’occupazione, signora May. Disoccupati al minimo storico del 4,5%, tasso di occupazione al massimo storico di tutti i tempi, prossimo ad uno stratosferico 75%. Tutti lavorano, in Britannia. Unico problema: i loro salari reali, negli ultimi dieci anni, raramente sono stati positivi. E la giostra della perdita di potere d’acquisto è ripartita anche quest’anno. Il paese è prossimo alla stagflazione, il governatore della Bank of England, che è canadese e prossimo ad andarsene, rischia di finire in minoranza se continuerà a non voler alzare i tassi, e per ora è costretto a dire che i tassi “si potrebbero alzare se gli investimenti mostrassero un andamento sostenuto”, concetto che indica un trasparente imbarazzo per essere finito “dietro la curva” dopo aver iniettato uno stimolo monetario panicato, all’indomani del referendum di giugno 2016.

I prestiti personali crescono a doppia cifra, promettendo grossi mal di testa; il mercato del lavoro è stretto come mai lo era stato nella storia recente del paese ma di inflazione salariale nessuna traccia. Nel frattempo, è iniziato il percorso parlamentare del Repeal Bill (quello che May con iattanza chiamava il Great Repeal Bill), il provvedimento di legge che traspone la legislatura comunitaria in quella domestica. Un’opera improba, perché richiederà non solo atti legislativi ma anche regolamenti attuativi, sottratti alla sovranità del parlamento. E già c’è rivolta nei parlamenti devoluti di Scozia e Galles, che esigono di avere la loro parte di norme ex comunitarie a cui presiedere.

Col trascorrere delle settimane, il quadro appare sempre più chiaro: servirà un regime transitorio, che potrebbe avere durata non breve, durante il quale la Corte di Giustizia europea continuerà ad esercitare la propria primazia sulle corti britanniche, ed il movimento di persone resterà libero. Malgrado la buffonata di una May che va ad allettare Turchia ed Australia per iniziare a scrivere un modello di trattato commerciale liberoscambista da urlo, di quelli che di solito portano il popolo in piazza a gridare al complotto pluto-giudaico-massonico ed allo stupro della sovranità, nulla potrà essere fatto prima di aver reciso il cordone ombelicale con la Ue. Ma ci si può sempre rivolgere per avere una mano al cugino Donald Trump, ammesso che quest’ultimo non si accorga che il Regno Unito ha un forte surplus commerciale bilaterale (orrore!) con gli Usa.

Se poi la Ue medesima raggiungesse un accordo operativo (e non solo annunci solenni, come quello dei giorni scorsi) col Giappone per un trattato di libero scambio solo dopo l’uscita di Londra, le cose si complicherebbero ulteriormente per la povera May o per chi dovesse succederle. Al momento, però, ci pare di poter dire che i Tories sono così terrorizzati dalla possibilità che nuove elezioni consegnino il paese ai laburisti di Jeremy Corbyn, che la premier potrebbe continuare a godersi i ceffoni della realtà ancora per un non breve periodo di tempo.

Quello che per il momento avete smesso di sentire sono i compiaciuti editoriali italiani sul grande successo della Brexit, scritti spesso da ometti ossessionati che cercano con ogni mezzo di sfuggire al grigiore della loro esistenza professionale. Così aggrappati al loro feticcio ed al loro pensiero strategico da osteria: “ma la Germania ha un forte surplus commerciale col Regno Unito, vedrete chi riderà ultimo!”. O anche “se il Regno Unito ricadesse nelle norme WTO con una Hard Brexit, che problema ci sarebbe? Il cambio risolverebbe tutti i problemi!”. La realtà è terribilmente faticosa, a volte. Per ora diciamo che Brexit means mess. Per tutto il resto, c’è il popcorn.

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