di Luigi Oliveri
Egregio Titolare,
Può esservi nuova e maggiore occupazione se la produttività del lavoro è bassa, come conferma l’Istat per l’Italia? A leggere l’intervista rilasciata dal commissario per la spending review, Yoram Gutgeld, al Corriere della sera del 16 novembre, parrebbe proprio di sì e che, in più, prima le politiche debbono favorire l’occupazione, mentre la produttività può considerarsi come un accessorio subordinato.
Questo il pensiero del commissario: “La sfida è far sì che più persone lavorino. Poi c’è il tema della produttività, certo”.
A questi pixel gentilmente ospitati, pare che qualcosa nel ragionamento non torni. Semplificando, la produttività del lavoro è il tasso di valore aggiunto alla produzione, che deriva ovviamente dal rapporto tra valore aggiunto ed ore di lavoro. Lo capisce chiunque che se il denominatore, cioè le ore di lavoro, aumenta, ma il numeratore resta uguale, il tasso di produttività non può far altro che diminuire ancora.
L’esemplificazione fin troppo banalizzante evidenzia che se non vi è un deciso incremento della produzione, ben difficilmente le aziende possono sentire il bisogno di assumere nuovo personale e, quindi, di fatto accollarsi un incremento improduttivo del costo del lavoro.
Ritenere, quindi, che la produttività sia un problema da porsi dopo l’incremento dell’occupazione appare oggettivamente assai singolare.
Come dice, Titolare? Il Governo, tuttavia, vanta appunto un incremento dell’occupazione di quasi un milione di posti dal 2014?
Come Ella insegna, caro Titolare, i dati sull’occupazione andrebbero analizzati in modo meno brutale e grossolano di una semplice sommatoria lineare a partire da una certa data.
Più volte, Ella ha evidenziato, come primo elemento che non viene mai preso in considerazione, che l’incremento occupazione segnalato dall’Istat deriva dall’allungamento della vita lavorativa derivante dalla riforma Fornero. Si potrebbe quasi affermare che questa innegabile (ma ignorata scientemente dalla “narrazione”) realtà possa costituire esattamente una delle cause della bassa produttività del lavoro.
Inoltre, acclarato che il 93% del flusso dei nuovi “posti” è composto da contratti flessibili e sottolineato (come troppi anche in questo caso ad arte non fanno) che le rilevazioni Istat contemplano tra gli “occupati” anche i tirocinanti, sarebbe da sottolineare che parte rilevantissima del milione di nuovi posti statisticamente rilevato è in buona parte un abbaglio.
Non perché non vi sia un incremento dell’occupazione, ma per la qualità di essa. Tirocinanti e stagisti sono censiti come occupati, ma come è noto, non si tratta nemmeno di rapporti di lavoro considerati come tali sul piano giuridico; meno che mai lo sono sul piano strettamente economico. Inoltre, un mercato del lavoro volatile, nel quale la quasi totalità dei “posti” è di natura flessibile, e che ai fini statistici (secondo regole, comunque, vigenti e concordate tra gli istituti di statistica europei) considera occupato anche chi abbia lavorato una sola ora nella settimana precedente la rilevazione, non può considerarsi come effettivamente capace di dare vita ai tre principali benefici che i lavoratori dovrebbero trarre da un rilancio vero dell’economia: lavori stabili, incrementi di ore e connessi incrementi retributivi.
Esattamente al contrario, si nota, invece, che il lavoro nuovo non è per nulla stabile e che rispetto all’inizio della crisi le ore di lavoro sono sempre in costante discesa, il che porta dietro di sé una decrescita dei redditi da lavoro (per approfondimento, vedasi Nota congiunturale di ottobre dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, pagg. 17-20).
Lo ha già spiegato Ella molte volte, caro Titolare: la crisi, rimanendo asfittica la produzione per le molte ragioni note, dette e non dette, del sistema economico, ha indotto le aziende a cercare di ridurre la componente del costo del lavoro riducendo le ore medie lavorate dai singoli ed i salari ricorrendo ampiamente alle forme flessibili meno costose o limitando gli investimenti su forme stabili solo se robustamente sostenute da incentivi pubblici.
Al di là, dunque, delle narrazioni e delle reazioni da orgoglio ferito contro l’invito del vice presidente della Commissione Ue Katainen affinchè l’Italia prenda coscienza del suo stato di permanente difficoltà, puntare ad incrementare il numero di persone che lavorano agendo solo sulle leggi (come il Jobs Act), oppure mediante bonus o ancora pompando forme lavorative a bassissimo costo, senza rilanciare l’economia e la produzione, potrà essere considerato come risultato delle “riforme”, ma imprese e famiglie continueranno a sperimentare ulteriormente l’asfissia che li opprime da troppi anni.