Equo compenso, l’Antitrust confonde professionisti ed imprese

di Massimo Burghignoli

Egregio Titolare,

non appena il Senato ha approvato la conversione del D.L. 148/2017 è giunta la segnalazione 24-11-2017 dell’Antitrust (AS1452) che ha stigmatizzato le nuove disposizioni sul c.d. “equo compenso” per i professionisti, in quanto lesive della libertà di concorrenza. La segnalazione, a parte richiami molto astratti alla dottrina di Chicago, sembra in realtà preoccupato della giurisprudenza delle Corte di Giustizia UE (sentenza 8-12-12016 C-532/15 e C-538/15 in nota 4), che aveva “assolto” le tariffe forensi spagnole.

Infatti, afferma il Garante in nota a pié di pagina, ciò è avvenuto non in quanto le tariffe spagnole giovassero alla concorrenza, ma sol perché esse erano elaborate dallo Stato e non da una mera associazione di categoria. E lo Stato persegue l’interesse pubblico.

Questo principio è stato recentissimamente ribadito dalla sentenza CGUE 23 novembre 2017 (C?427/16 e C?428/16), che ha ritenuto lesive della concorrenza le tariffe forensi bulgare solo in quanto stabilite dall’organizzazione di categoria, senza superiori interventi normativi.

Volendo leggere al completo la giurisprudenza europea, invece di difendersene, il Garante dovrebbe allora ammettere che la norma statale può ben approvare tariffe professionali cogenti, se ciò risponda ad obiettivi legittimi, ed appaia proporzionato al loro raggiungimento. E la valutazione di tali presupposti è di competenza dei giudici nazionali.

Nel caso italiano il c.d. “equo compenso” altro non rappresenta che la retribuzione ritenuta sufficiente e dignitosa ai sensi dell’art. 36 della Costituzione (leggasi la Relazione del Ministro Orlando); ma l’Antitrust italiana considera i professionisti assimilabili alle “imprese”, persino quando sono mononucleari; quindi l’art. 36 non sarebbe stato scritto per loro.

È la ragione per la quale i Contratti Collettivi sono leciti e le tariffe collettivamente concordate no, anche se rispondono alla medesima esigenza economica: salvaguardare l’interesse di una categoria “debole”.

Si noti anche che le attività tipiche dell’assistenza legale sono escluse dalle procedure di evidenza pubblica previste dal Codice dei Contratti (art. 17 n.1), restandovi assoggettate in sostanza le sole attività continuative di consulenza (in-house legals), ma ciò non ha convinto l’Antitrust a considerare che le professioni non vengono sempre e comunque esercitate in forma di impresa; e che anche quando ciò avviene, le associazioni o società professionali non sono assimilate all’imprenditore commerciale.

Allora: perché i metalmeccanici, ma anche i più agiati dirigenti dell’industria e del commercio possono negoziare tariffe, per giunta senza alcun controllo legislativo, ed i commercialisti od avvocati non possono farlo neppure sotto l’ombrello della legge?

Eppure la libertà di concorrenza non è un valore assoluto, bensì soltanto uno dei diversi modi con i quali uno Stato può tutelare interessi degni di rilevo, quindi non è destinata funzionare sempre e comunque. L’approvvigionamento di farmaci per il SSN è forse affidato alla libera concorrenza? Quando, nel periodo postunitario, la moneta era battuta dai cinque istituti di emissione (Banca Nazionale del Regno d’Italia, Banca Nazionale Toscana, Banca Toscana di Credito, Banco di Napoli, Banco di Sicilia) ci si accorse, con lo scandalo della Banca Romana che “sovrastampava” moneta, quanto fosse da preferire il monopolio della neoistituita Banca d’Italia. E vi sarebbero moltissimi altri esempi.

È infatti la politica a discriminare gli interessi da tutelare, e soltanto di conseguenza a scegliere il mezzo giuridico appropriato alla bisogna; è quindi d’uopo convenire che la valutazione dell’Antitrust nazionale è politica, e non da “autorità indipendente”.

Affermare che la libera concorrenza dei professionisti si sostiene associandosi nelle società di capitali (con quote di governo in mano alle imprese committenti, altrimenti che le farebbero a fare?) vuol dire non conoscere il “mercato di riferimento”, oppure, peggio, dirigerlo verso le grosse concentrazioni professional-imprenditoriali. Ma la grande impresa che mangia le piccole e diviene monopolista non era lo spettro dello Sherman Antitrust Act? Ah già, ma questo è l’Antitrust “de noantri”.

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Le opinioni espresse in questo post (così come tutti i contributi esterni) non corrispondono necessariamente alla “linea editoriale” di questo sito e del suo titolare. Ma offrono uno spunto di riflessione contro i luoghi comuni, come da missione del sito. Ed è certamente un robusto luogo comune quello che considera tariffe minime professionali come ostacolo al raggiungimento di una maggiore concorrenza. Ma un mercato con diseguali rapporti di forza tende inevitabilmente a concentrarsi ed integrarsi verticalmente, e a ridurre i margini di competizione. Forse l’equo compenso non è il miglior strumento per preservare la concorrenza, ma le osservazioni contenute in questo post credo siano interessanti. (M.S.)

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