I misteri di quota 100 e l’invasione delle micro-pensioni

Ieri il presidente Inps, Tito Boeri, ad un evento pubblico, ha ricordato che il costo effettivo di consentire l’uscita pensionistica al raggiungimento di quota 100, come somma di anni di contribuzione ed età anagrafica, determinerebbe a regime un aggravio annuo per i conti pubblici di 20 miliardi di euro. Per contro, nel programma-Contratto della nuova maggioranza legastellata, si parla di maggiori oneri per “soli” 5 miliardi annui. Chi avrà ragione?

Boeri ha calcolato che, inserendo finestre di uscita (cioè ritardi) di 15 mesi, e quindi superando quota 101 effettiva, il costo scenderebbe a 7 miliardi il primo anno e 13 miliardi annui a regime. Cifra che scenderebbe ulteriormente escludendo eventualmente contribuzioni figurative e riscatti. Considerando che il Contratto prevede la reintroduzione della cosiddetta “opzione donna”, cioè l’uscita a 57-58 anni con 35 di versamenti ma con ricalcolo interamente contributivo, quello che è ampiamente prevedibile è avere pensioni da fame vera e nera. Ma tranquilli, tanto poi arriva la “pensione di cittadinanza” grillina e tutto si aggiusta.

C’è poi anche un aspetto geografico, in questa fumosa proposta, che prevede sì quota 100 ma con almeno 64 anni di età oppure 41 anni di contribuzione senza limiti di età, per i lavoratori precoci. Del tutto evidente che questi paletti favoriscono i lavoratori con carriere contributive stabili e retribuzioni mediamente elevate, e questi ultimi si trovano -ovviamente- al Nord, dove c’è la maggior incidenza di pensioni di vecchiaia ed anzianità.

Detto in soldoni, nel Mezzogiorno questa riforma in tantissimi rischiano di vederla col binocolo, visto anche che l’Ape sociale, che ad oggi è il correttivo sperimentale per discontinui e precoci, scadrà a fine 2018. E quindi, anche in questo caso, servirà altra spesa assistenziale, con la sopracitata pensione di cittadinanza.

Alla fine, il programma leghista e quello grillino appaiono perfettamente complementari, nel senso che entrambi puntano alla devastazione dei conti pubblici come premessa per l’uscita traumatica dalla moneta unica, da attuarsi previa messa in circolazione di quantità crescenti di moneta parallela sotto forma di mini-bot, cioè di cartolarizzazione di debito futuro, che prenderebbe un andamento esplosivo. Tutto si tiene, alla fine. In caso ci si fermasse prima di quel livello Defcon, l’esito sarà semplicemente una miriade di mini-pensioni inferiori alla soglia di povertà, non solo relativa. Qualcosa di mini riusciremo a portare a casa, quindi.

A parte questi piani ben riusciti, per i quali notoriamente andiamo pazzi, è utile segnalare che ieri è uscito lo studio dell’Osservatorio sui conti pubblici diretto da Carlo Cottarelli, nel quale si può leggere il debunking della leggenda metropolitana che ritiene che la spesa previdenziale italiana sarebbe assai inferiore, se solo la si separasse da quella per assistenza. Yawn.

In tale studio, vengono affrontati i miti alla base della necessità di separazione ma anche di altre fantasiose rettifiche contabili. Il primo mito sostiene che in Italia la spesa pensionistica sarebbe “lorda”, cioè sovrastimata, non tenendo conto di quanto i pensionati pagano di Irpef. La risposta dello studio di Cottarelli:

«Le tasse che pagano i pensionati italiani vanno a finanziare servizi pubblici di cui beneficiano i pensionati stessi (si pensi alla sanità), servizi che magari in altri paesi sono inferiori perché la tassazione è più bassa, come nel caso degli Stati Uniti o del Giappone. Correggere per la tassazione richiederebbe anche correggere per i benefici che i pensionati ricevono dallo Stato, che sono probabilmente superiori a quelli ricevuti in altri paesi»

E si torna al via. Sul trattamento di fine servizio (Tfs) l’equivalente del Tfr nel settore pubblico,

«Sottraendo tale cifra da quanto calcolato da Eurostat, la spesa italiana rimarrebbe comunque la seconda più elevata tra i paesi considerati (…). Questa correzione assume che in nessuno degli altri paesi esistano forme di pagamento che avvengono in corrispondenza della fine del rapporto lavorativo, il che è molto dubbio»

Riguardo alla separazione in senso proprio tra previdenza ed assistenza, il rapporto è demolitorio, sul piano strettamente logico, ma si sa che la logica è fuggita da molto tempo dall’Italia:

«(…) la distinzione tra spesa previdenziale e assistenziale non è così ovvia. Essa è basata sul fatto che la spesa previdenziale sarebbe il corrispettivo di contributi passati, mentre la spesa assistenziale sarebbe erogata indipendentemente dai contributi versati. Si tratta però di una differenza solo parziale. In un sistema come il nostro, la spesa previdenziale non è il corrispettivo di versamenti fatti come avviene in un sistema a capitalizzazione (fully-funded system). Il nostro sistema è invece basato (anche nella parte contributiva) su pensioni che sono calcolate sulla base di una certa formula e non corrispondono necessariamente al valore attuariale dei contributi versati. Anche nella parte previdenziale della spesa pensionistica non esiste una corrispondenza precisa tra contributi versati e pensioni, proprio come avviene per la parte assistenziale. Ai fini dei confronti internazionali, o per seguire l’evoluzione temporale della spesa, ha quindi senso considerare l’intera spesa pensionistica che va a vantaggio di tutti gli anziani»

Ecco perché non è affatto semplice, e più propriamente è illusorio, separare previdenza da assistenza. Se, tuttavia, volessimo usare un criterio molto meno sofisticato, utilizzando l’aggregato Eurostat che più si avvicina alla definizione di spesa previdenziale,

«[…] pari alla somma delle pensioni percepite da chi ha superato la soglia di età anagrafica (funzione “old age”), da chi ha raggiunto il requisito in termini di anni di contribuzione (funzione “anticipated old age”) e dai superstiti (funzione “survivor”)»

scopriremmo che l’Italia è seconda anche in questa classifica europea, dietro la Grecia, così come conferma questa posizione considerando l’incidenza sul Pil della spesa pensionistica al netto delle imposte. Peccato, l’ennesimo proiettile d’argento italiano che viene sprecato. Si sarebbe potuti giungere a conclusioni più rapide partendo dalla premessa “è la demografia, stupidi”.

Sappiamo che questi sono esercizi inani, visto che lo zeitgeist italiano pare essersi ben centrato sull’antico motto sessantottino “siate realisti, chiedete l’impossibile”, con aggiunta di monetizzazione del deficit e uso di cartamoneta del Monopoli. E quello avrete, cari compatrioti.

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