Le omissioni del contratto legastellato: il rischio di fondi esteri ai partiti

di Vitalba Azzollini

Dopo le “parole” del contratto di governo – e in attesa delle “opere” – può essere utile considerarne anche le “omissioni”. Una in particolare, circa un tema ricorrente negli ultimi anni: la trasparenza dei finanziamenti alla politica. Di Maio era sembrato averla molto a cuore nel corso della campagna elettorale, soprattutto con riferimento a fondazioni e casse dei partiti. Del resto, nel 2016 il movimento aveva pure presentato un disegno di legge al riguardo.

Nonostante vi fosse qualche dubbio circa il senso dei cinque stelle per la disclosure, alla pari dei co-firmatari del contratto di governo, ci si sarebbe comunque aspettati che la maggiore trasparenza promessa in vista del voto del 4 marzo sarebbe stata tra gli obiettivi esplicitati nel contratto stesso.

E invece niente, nonostante la legge sull’abolizione del finanziamento pubblico in via diretta ai partiti (l. n. 13/2014) – cessato da quest’anno – abbia mostrato nel tempo lacune che consentono l’opacità di canali di finanziamento diversi. Eppure essa prescrive alle formazioni politiche obblighi di disclosure, tra le altre cose, su statuti, rendiconti ed erogazioni private di cui siano destinatarie, legando il rispetto di quegli obblighi alla possibilità di fruire di benefici economici: in particolare, il 2 per mille dell’Irpef devoluto da parte dai contribuenti; e la detrazione d’imposta del 26% per le donazioni ai partiti, spettante ossimoricamente anche ai politici obbligati per statuto a versare a essi una quota della propria indennità.

Nelle intenzioni del legislatore, l’abolito finanziamento pubblico diretto avrebbe dovuto essere compensato da quello proveniente dai privati, reso trasparente in forza dei  meccanismi incentivanti previsti. Le cose sono andate in altro modo: da un lato, i cittadini contribuiscono in misura insufficiente al sostentamento della politica; dall’altro, le prescrizioni in tema di disclosure si sono dimostrate inadeguate.

Quanto al primo punto, solo il 3% circa dei contribuenti esprime nella dichiarazione dei redditi la volontà di destinare soldi ai partiti; inoltre, “il finanziamento privato sotto forma di donazioni da aziende o persone (nonostante le agevolazioni fiscali previste) non è decollato”. Unitamente al venir meno del sovvenzionamento diretto dello Stato, ciò ha determinato un forte ridimensionamento delle entrate annuali dei partiti (il 61% in 4 anni).

Quanto al secondo punto, i meccanismi preposti alla trasparenza, di cui alla legge citata, si sono rivelati carenti per molti aspetti. Tra gli altri, basta rinunciare ai benefici economici da essa previsti per sottrarsi a ogni obbligo di disclosure (è quanto fanno i cinque stelle); non è prescritta alcuna pubblicità per gli apporti inferiori a cinquemila euro annui, ma i motivi di tale limite non sono chiari; e anche i donatori di somme superiori possono rimanere occulti, se non prestano il proprio consenso alla pubblicazione dei dati personali. A tutto ciò si aggiunga che associazioni e fondazioni riconducibili alla politica sono gravate da obblighi di disclosure solo se rientranti in alcune limitatissime fattispecie, restandone esclusa un’ampia gamma di possibili intrecci tra esse, singoli e partiti. Soprattutto, tali formazioni non sono tenute a rendere noti i propri finanziatori (su 108 fondazioni, solo 15 a titolo volontario fanno una certa trasparenza sulle entrate). Dunque, nonostante esse rappresentino canali usati per veicolare denaro ai partiti e ai loro componenti, godono per lo più di un’opacità assoluta.

Forse è più chiaro ora il motivo per cui, così come assicurato in campagna elettorale, sarebbe stato necessario prevedere nel contratto di governo un intervento teso a fare chiarezza sui profili rilevati. Considerato che i sovvenzionamenti ai decisori pubblici si possono tradurre in pressioni nei loro riguardi – e in Italia manca una disciplina delle lobby, promessa anch’essa dai cinque stelle, ma della quale pure non c’è traccia nell’accordo con la Lega – l’assenza di trasparenza circa tali sovvenzionamenti va a minare la credibilità dei decisori stessi; quella mancanza di credibilità concorre alla disaffezione dei cittadini verso la politica, quindi alla loro scarsa propensione a destinare ad essa risorse; e ciò può indurre i partiti ad approvvigionarsi a fonti diverse e non sempre cristalline.

Tra tali fonti diverse e non sempre cristalline sono stati recentemente citati anche Paesi esteri.I partiti sono organizzazioni porose, ormai sganciate  dal cordone ombelicale del finanziamento pubblico. La cronica ricerca del denaro, tanto a livello centrale quanto a livello locale, ne fa un bersaglio ideale per potenze esterne intenzionate a condizionare l’agenda politica italiana”. Ed è quest’ultimo tassello a rendere ancora più singolare la scelta di omettere la trasparenza dei finanziamenti alla politica tra i punti del contratto di governo.

Infatti, il condizionamento dei partiti, “architrave dell’intero sistema politico”, equivale a una sorta di cessione di sovranità, perché non passa nemmeno attraverso il processo democratico, ma solo attraverso i loro conti correnti (Galietti). È dunque contraddittorio – per usare un eufemismo – che due formazioni politiche “sovraniste” non abbiano colto l’occasione per sancire, tra gli obiettivi del prossimo esecutivo, una disclosure atta fugare ogni dubbio di influenze esterne, cioè di cessione di sovranità ad altri Stati in qualità di sovvenzionatori vari ed eventuali.

A pensar male, ipotizzando motivazioni di convenienza, si fa peccato. Ma solo pensando male si riesce talora a scorgere un senso in parole opere e omissioni, così come in “finestre lasciate spalancate a finanziamenti esteri impropri e opachi, magari poi chissà, pure a vantaggio di chi urla in nome della lesa sovranità nazionale”. A volte ci si azzecca.

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