Oggi su La Stampa trovate un editoriale di Carlo Cottarelli dal titolo inequivocabile: “Gli errori di Tria – Investimenti e il miracolo impossibile: alzare il Pil e tagliare il debito“, che curiosamente riprende un concetto che il vostro umile titolare ha espresso su questi pixel due giorni addietro.
Che dice, Cottarelli? La premessa è la passione del ministro dell’Economia per investimenti pubblici come volano di tutto, una sorta di genesi che ci condurrà alla Terra Promessa. Il concetto è astrattamente corretto, su di esso servirebbe forse meno enfasi di quella che viene utilizzata dai governi italiani pro tempore da parecchi anni a questa parte.
Gli investimenti pubblici servono ad innalzare il potenziale di crescita dell’economia, oltre a rappresentare uno stimolo di breve termine della domanda aggregata, come sappiamo. Storicamente, in Italia la seconda funzione è risultata largamente dominante sulla prima. Ma Tria si è spinto oltre, fin verso la soglia del pensiero magico, e Cottarelli lo bacchetta. Secondo Tria
«Gli investimenti pubblici materiali e immateriali dovranno essere la chiave per ottenere quel di più di crescita che permetterà di conciliare l’attuazione del programma di riforme strutturali, annunciato dal governo, con un quadro di finanza pubblica coerente con l’obiettivo di diminuzione progressiva del rapporto debito-Pil, sul quale il governo si è impegnato»
Cottarelli replica:
«Capito? Gli investimenti pubblici consentirebbero alla fine di finanziare anche la parte corrente del contratto di governo»
Cioè il maxi deficit per riforma della legge Fornero, reddito di cittadinanza, flat tax. Abbiamo la nuova cornucopia italiana, in pratica. Cottarelli precisa di non essere un “talebano fiscale”, avendo sostenuto con Olivier Blanchard, ai tempi del FMI e della Grande Crisi (2008), un robusto programma di stimoli fiscali, fatto soprattutto da investimenti pubblici, dell’ordine di ben il 2% di Pil. E tuttavia, scorporare gli investimenti pubblici dal rapporto deficit-Pil non fa scomparire il deficit (e il debito), né la valutazione che gli investitori danno di esso. Ancora Cottarelli:
«Per un Paese ad alto debito aumentare il deficit, anche se per spese di investimenti, potrebbe non essere gradito da chi compra titoli di Stato. Diversi studi dimostrano che il rischio di crisi sul mercato dei titoli di stato dipende dal livello e dalla dinamica del rapporto tra debito pubblico totale e Pil. Non ne conosco uno che concluda che un aumento del rapporto tra debito e Pil sia accettato più benevolmente dai mercati se va a finanziare investimenti pubblici. Si dirà: ma no, il rapporto tra debito e Pil non aumenta, scende per via dell’effetto denominatore: se aumenta il Pil…Eh già. Peccato che non ci sia un Paese che sia riuscito a ridurre in modo stabile il rapporto tra debito pubblico e Pil facendo più deficit»
Perché definisco phastidioso il pensiero di Cottarelli? Perché ieri l’altro, in questo post, avevo scritto quanto segue:
«Ma i problemi restano quelli: come identificare in modo “certificato” quello che è “investimento” e non, ad esempio, una mancetta o una maxi mancia, come reddito di cittadinanza o taglio di imposte in deficit? E, ammesso e non concesso che si possa fare, sino a che livello spingersi? E come reagirebbero i mercati di fronte a quello che resta un aumento del deficit e del debito, con nessuna certezza che si tratti di spesa in conto capitale che produrrà gli ampi impatti moltiplicativi di cui si favoleggia?»
Che dite, stessi concetti? Parrebbe. Quindi, riepilogando: scorporare la spesa per investimenti dal rapporto deficit-Pil fa comunque crescere il deficit, gli investitori si insospettiscono o manifestano perplessità, i rendimenti sul debito pubblico crescono, i guai si amplificano. E i benefici degli investimenti pubblici dal lato dell’offerta? Cottarelli è netto, riguardo all’Italia:
«Prima della crisi del 2008-09 la nostra spesa per investimenti pubblici era di circa il 3% del Pil. La Germania stava a poco più del 2% del Pil: non è che noi avessimo infrastrutture tanto migliori di quelle tedesche. Ora la Germania spende sempre poco più del 2% del Pil. Noi siamo allo stesso livello. Siamo sicuri che sia utile spendere di più prima di aver imparato a spendere meglio?»
Purtroppo, il mantra italiano degli investimenti pubblici in deficit è il filo rosso che da molti anni accomuna i nostri governi. Il tutto avendo una storia di investimenti pubblici che non è esattamente insegnata nelle università come case study di promozione della crescita del sistema-paese.
Non fraintendetemi: io sono un grande tifoso del professor Tria, credo sia l’ultimo baluardo tra l’Italia e il caos, viste le skills dei componenti di governo e maggioranza, che si divide tra scappati di casa e gente che punta all’Incidente. Quindi dovremo sostenerlo e difenderlo fino in fondo. Ma il fatto che gli investimenti pubblici siano l’ennesimo proiettile d’argento di un paese che sta scendendo le scale degli inferi confermano che cicli di autoinganno e disillusione (con relativo vittimismo a corredo) scandiscono ormai la vita pubblica di questo paese.