Ieri è stata una giornata di grande eccitazione, nello stagno italiano. La pubblicazione di due dati economici ha infatti prodotto una sarabanda di festeggiamenti, spruzzate di analisi a sfondo sociologico e titillato spiriti di rivalsa degni di miglior causa. Su tutto, prevale una robusta ignoranza che porta a discettare di cose e cause che semplicemente non si conoscono.
Il dato sul mercato del lavoro di marzo ha mostrato una crescita netta di ben 60 mila unità degli occupati, che a sua volta ha trascinato al rialzo il tasso di occupazione. Di essi, 46 mila sono dipendenti permanenti, cioè a tempo indeterminato, mentre la variazione stimata degli occupati a termine è nulla.
Subito, abbiamo avuto la corsa ad interpretare questo “boom” di occupati dal “posto fisso” come frutto del Decreto Dignità e della sua prodigiosa capacità di creare occupazione dal nulla, letteralmente. Perché sostengo questo? Provate a riflettere. Ipotizzate che le cose stiano come sostenuto da una propaganda che ha ormai invaso i verdi pascoli delle turbe psichiche.
Allora: abbiamo occupati a tempo determinato che vengono trasformati a tempo indeterminato. Cioè abbiamo degli occupati che restano occupati ma sotto un differente inquadramento contrattuale. Domanda: secondo voi, di quanto aumenta l’occupazione? Coraggio, non è difficile. Aumenta di zero.
Invece, questo dato fa emergere un aumento netto di occupati, cioè indica una situazione in cui le aziende avrebbero aumentato gli organici. Voi pensate che il decreto dignità c’entri qualcosa, in tutto ciò? Ovviamente no, perché il decreto dignità nulla c’entra con la creazione netta di occupazione. Ma la domanda è un’altra: secondo voi, che motivo razionale avrebbero le imprese per espandere i propri organici, in un contesto di stagnazione e forte incertezza? In aggregato, nessuno.
E allora, come si spiega questo dato? Io un’idea ce l’avrei. Premesso che il dato di un mese non fa una tendenza, e premesso anche che le rilevazioni sono una indagine campionaria, la mia ipotesi è che si sia creato un problema di campionamento. Nel senso che nel campione utilizzato si è prodotta una sovra-rappresentazione di lavoratori stabilizzati, come se si trattasse di assunzioni ex novo (o, meglio, ex nihilo). In altri termini, il campione non avrebbe correttamente rappresentato le trasformazioni, che non sono creazione netta di occupazione.
Se questa ipotesi è corretta, nei prossimi mesi vedremo la normalizzazione di questo dato anomalo. Ma ribadisco, partite dal presupposto che:
- Le trasformazioni a tempo indeterminato di rapporti di lavoro non sono creazione di nuova occupazione;
- Nel contesto congiunturale attuale non ha senso logico immaginare che le aziende abbiano appetito per espandere gli organici.
Su tutto, pensate che le rilevazioni Istat sono e restano indagini campionarie. Magari vi aiuta pro futuro. Eppure basterebbe una modica quantità di logica, anche in assenza di conoscenze statistiche. Ah, dimenticavo: anche il forte calo di disoccupati potrebbe essere riconducibile a problemi di campionamento.
Altro dato pubblicato ieri, che ha suscitato trenini e festeggiamenti, è quello della stima preliminare del Pil del primo trimestre 2019. Che è pari a +0,2%, contro attese poste a +0,1%. Ricordate che la prima stima dei conti economici trimestrali è necessariamente grezza e fortemente approssimata, perché ancora non considera parte dei dati del terzo mese del trimestre, o meglio li stima in prevalenza per via indiretta.
I conti “veri” si faranno tra un mese, con la stima finale e la sua disaggregazione. Ma sin d’ora c’è una frase del commento Istat che si può utilizzare:
Dal lato della domanda, vi è un contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte) e un apporto positivo della componente estera netta.
Che vuol dire? Che la componente domestica, cioè consumi pubblici e privati, investimenti e scorte, ha prodotto un calo di valore aggiunto. Voi vedete motivo per festeggiare? Non solo: considerando che, nel quarto trimestre dello scorso anno, le scorte avevano sottratto crescita nel trimestre per ben lo 0,4%, ecco che appare verosimile che nei primi tre mesi di quest’anno le imprese abbiano lavorato per il magazzino, per ricostituire almeno in parte i livelli di giacenze, lasciate decumulare nel trimestre precedente a causa della fortissima incertezza domestica ed internazionale.
Se le cose stanno in questi termini, e se nel primo trimestre dell’anno la produzione industriale è stata rinvigorita dall’attività per il magazzino, cioè se la variazione di scorte è stata positiva, prendete il commento Istat e giungerete alla conclusione che le altre componenti domestiche di domanda, cioè consumi ed investimenti, hanno avuto nel trimestre una vera e propria gelata. Ricordate che a febbraio (ultimo mese per il quale esistono dati), gli ordinativi industriali hanno segnato una forte contrazione su base mensile.
Anche qui, voi vedete motivi per festeggiare? Io no. L’interpretazione benigna è che l’Italia resta in stagnazione, poco sopra o poco sotto la variazione nulla di valore aggiunto. Che poi è esattamente quanto afferma Istat nel commento al dato, parlando di “fase di sostanziale ristagno del Pil”, facendo mostra di oggettività.
Nel frattempo, lo spread resta molto alto e corrode silenziosamente ma inesorabilmente l’economia del paese. Di quello non parla praticamente nessuno. Però voi festeggiate pure, mi raccomando.
Addendum – Piccola nota in calce: la destagionalizzazione del mese di marzo aggiunge al dato puntuale grezzo altri 91 mila posti: da 23,2 a 23,291 milioni di occupati totali. Allo stesso modo, la rettifica mensile per la stagionalità porta il tasso di disoccupazione dal dato puntuale grezzo di 10,44% a 10,2%. A marzo 2018 lo stesso processo aveva aggiunto 69 mila impieghi e tolto mezzo punto alla disoccupazione, da 11,5% a 11%. Utile saperlo.