La proposta del presidente del consiglio, Giuseppe Conte, per la gestione dei mitologici fondi del Recovery Fund, si sintetizza in una sequenza di numeri vagamente cabalistici, pur senza arrivare a essere definiti “schema di Ponzi” come fatto da Lucia Annunziata, a cui evidentemente il significato dell’espressione non è chiarissimo. O forse lo è anche troppo. Come che sia, sarebbe 1-2-6-300 oppure 3-6-300, a seconda che il premier sia o meno primus inter pares rispetto ai colleghi del MEF e del MISE. Parliamone.
Dunque, abbiamo il vertice politico: il premier, il ministro dell’Economia e quello dello Sviluppo economico. Questo livello affianca il Comitato interministeriale Affari europei, guidato dal ministro Enzo Amendola. Sotto di loro, un cosiddetto comitato tecnico esecutore, detto “di missione”, formato da sei manager rigorosamente “indipendenti”, uno per ogni macroprogetto o missione, appunto.
Questi sarebbero i potenziali commissari con superpoteri di cui sempre si favoleggia, in questo paese, quando suona la sveglia del “fate presto” ma il manuale Cencelli blocca tutto e tutti. A loro disposizione, un totale di 300 esecutori, non è chiaro se “giovani e forti” ma di certo non aspirano a essere morti. Ah, sempre tutti indipendenti, sia chiaro.
Detta così, vuol dire tutto e nulla. Servirà, dicono, apposito emendamento alla legge di Bilancio, per definire la governance effettiva. Qui occorre fare una rapida analisi. In primo luogo, vorrei fare disclosure e informare quelli tra voi che non ne fossero al corrente, che i miei studi universitari sono di matrice organizzativa, quindi organigrammi e simili mi hanno sempre divertito.
Ben di più, al punto da farci una tesi di laurea, mi hanno divertito ed affascinato gli aspetti culturali delle organizzazioni complesse. Cioè quelle variabili che possono segnare il successo o il fallimento di organigrammi e mansionari. Ne accenno molto spesso anche da questi pixel, in effetti.
La struttura formale di un’organizzazione complessa può finire sugli scogli se i componenti sono mossi da sfiducia reciproca e perseguono obiettivi non comuni ma riferiti a gruppi terzi di appartenenza, esterni all’organizzazione.
Entropia italiana
Se vi pare troppo complesso, ve lo traduco in modo differente. Se partecipo a un comitato ma solo per portare a casa risultati e risorse sottraendoli agli altri partecipanti al comitato, qualsiasi formalizzazione minuziosa e maniacale della governance sarà aggirata e svuotata di senso. Causando, per reazione, un ulteriore giro di vite di normazione ed ulteriori elusioni.
Suona familiare? Direi di sì, è il motivo per il quale in Italia le norme falliscono miseramente, di solito, e si avvitano in circoli viziosi alla Ionesco.
A parte ciò, immaginiamo il motivo per il quale il premier può aver optato per una simile struttura, dimostrando (come vi dico da tempo) di essere molto abile a sfruttare le debolezze e le paure dei partiti, dalla sua posizione di mediatore presunto tecnico che è ormai assurto a progettista politico e conservatore della propria sopravvivenza di ruolo.
Volete il leggendario rimpasto, detto anche tagliando, verifica e quant’altro, da sempre segnale di allarme della prossima implosione di una coalizione di governo? E io provo a offrirvi questa sequenza cabalistica e vediamo se ve la fate bastare, altrimenti penserò ad altro.
Un democristiano senza più soldi
Non è Conte che crea magistralmente sabbie mobili: sono le debolezze estreme dei partiti tutti, nessuno escluso, di fronte a una realtà implacabile, a produrre esiti di questo tipo. È la debolezza stessa del tessuto civile della società italiana, a produrre ipernormazione e comitatismo, altra nota patologia cronica in via di aggravamento.
Quando vi dicevo che Conte è parte del sistema in quanto soprattutto sintomo, intendevo esattamente questo. Troncare e sopire, divide et impera. Cosa differenzia Conte da un democristiano dei bei tempi andati? Molto semplice: che il secondo poteva disporre, almeno fino alla crisi fiscale certificata e sanzionata da Tangentopoli, di risorse in eccesso da vaporizzare sull’altare del consenso e della remunerazione dei gruppi d’interesse, privati e pubblici. Per tutto il resto, ci sono i tagli dei nastri delle opere pubbliche.
Oggi su Repubblica c’è un gustoso pezzo di Filippo Ceccarelli (di gusto assai amaro, s’intende), in cui si descrive il picco della patologia italiana del comitatismo, per come ha preso corpo durante il regno di Conte:
[…] 12 sono i membri del Comitato Tecnico Scientifico del ministro della Salute Speranza e 39 quelli dell’Unità Operativa del commissario anti-Covid Arcuri. Ad aprile la ministra Pisano chiamò all’Innovazione 76 persone, alcune delle quali impiegandole a studiare il tracciamento telefonico dei positivi; di qui la prima sovrapposizione con il gruppo di Arcuri che nel frattempo si era messo al lavoro sulla app Immuni – che dio la perdoni.
Venne quindi costituito, ma quasi negli stessi giorni e non proprio agevolmente, il comitato, anzi la Task-force guidata da Colao: 17 componenti […] una volta varato l’organismo la cui testa era collocata a Londra, si scoprì che c’erano pochissime donne, per cui i 17 furono felicemente integrati con cinque presenze femminili.
A proposito, ma ve li ricordate, gli Stati Generali al Casino del Bel Respiro? Si, vero? Ebbene, da allora l’aria si è fatta ancor più pesante e il fiato più corto.
Segue sfiziosa citazione di Benedetto Croce, secondo cui “le uniche commissioni funzionanti sono quelle i cui componenti sono di numero pari inferiore a 1”. Certo, ma in democrazia, sia pure una democrazia oligarchica e predatoria, serve riassorbire il dissenso e distribuire risorse, è fatale. E quando le risorse vanno redistribuite tra gruppi sociali che concepiscono il mondo come gioco a somma nulla, l’unico risultato è una esplosione di entropia, e la distruzione di risorse fiscali.
Tecnostrutture ministeriali svuotate
Possiamo anche analizzare la sequenza “magica” del comitato proposto da Conte in termini di causa/effetto della debolezza delle strutture di missione “vere”, quelle che risiedono nei ministeri. Diciamo che quella del MEF pare la tecnostruttura più integra, per competenze e preservata tradizione. Quella del MISE appare invece piuttosto fragile, per usare un eufemismo pre-natalizio, anche per i trattamenti subiti nella corrente legislatura, quando è divenuto l’ufficio di collocamento dei pentastellati.
Debolezza strutturale o culturale che sia, e al netto della buona volontà dei singoli (penso ad Amendola), queste strutture sono l’inequivocabile marcatore della debolezza con cui l’Italia entra nel progetto Recovery Fund, che sta mandando fuori di testa mezzo paese, nel tentativo di catturare parte di quei soldi. Una gigantesca Irpinia, Belice, legge 488, Cassa del Mezzogiorno, definitelo come vi pare.
Anche e soprattutto per questi segni, il Recovery Fund rischia di essere l’ultimo chiodo nella bara italiana. E comunque, era già tutto scritto:
comitato s.m. [dal lat. comitatus –us (v. comitatus), nel sign. mediev.]. – Contea, territorio di giurisdizione di un conte. Il termine è talvolta ancora usato per indicare le divisioni amministrative di alcuni paesi.