Nelle more delle consultazioni di Mario Draghi per formare un governo di cosiddetta salvezza nazionale, spicca in queste ore il vero e proprio “caso Lega”. Un partito che, nel breve volgere di poche ore, passa da tradizionali posizioni euroscettiche al dialogo col premier incaricato, con un leader che spacca il cartello di cartapesta del centrodestra (questo è solo un logoro déjà-vu, comunque) e usa espressioni di afflato ecumenico, pronto a sedere in consiglio dei ministri affianco a quelli che lo hanno mandato a processo. E prima che il gallo cantasse tre volte.
Nulla di nuovo, o quasi: ricordiamo ancora, ad esempio, Gianfranco Fini dire che con Umberto Bossi non avrebbe preso “neanche un caffè”, e sappiamo come andò. Il tema qui non sono queste posizioni tattiche da consumati artisti di strada quanto la questione sottostante alla narrazione che ha preso piede da quando si è affermata la “linea Giorgetti”, che peraltro parte da lontano.
Suona la sveglia in fabbrica
Di che questione si parla? Della narrazione secondo cui “i ceti imprenditoriali del Nord”, stanchi delle rodomontate anti-Ue di Salvini, “si fanno sentire” e inducono il leader a più miti consigli, anche grazie alla comparsa della figura ormai messianica di Draghi (di questo vi abbiamo già detto, più volte).
Quindi, vediamo: vulgata vuole che i leggendari “imprenditori del Nord” scoprano oggi, a tre anni da inizio legislatura e un anno e mezzo dopo la fuga notturna agostana del cosiddetto capitano (minuscola), che la linea della Lega salvinista li danneggia. Si dirà: beh, che problema c’è? Gli imprenditori di solito lavorano molto e non hanno tempo per leggere i giornali e vedere i tg. Vero anche quello ma credo siano gli stessi imprenditori che hanno contribuito a dare alla Lega il terzo posto alle politiche del 2018 e, subito dopo -immagino- a portare Salvini al raddoppio delle intenzioni di voto, mentre la Lega nel Mezzogiorno non andava da nessuna parte.
Quindi, che dobbiamo pensare? Che la figura antropologica degli “imprenditori del Nord”, che dovremmo pur tentare di definire, è giunta alla conclusione che il ritorno alla lira non è fattibile e magari è lievemente suicida? Analitici e riflessivi, si direbbe.
Identikit di un mistero
Ma ne siamo sicuri? E comunque, chi sarebbero questi imprenditori del Nord? Sono esportatori con elevata incidenza di importazioni, che quindi avrebbero dovuto da sempre sapere che il capitolo delle svalutazioni competitive è chiuso sin quando esisteranno catene di fornitura continentale?
O magari sono quei terzisti un po’ scalcagnati, che non producono valore aggiunto e a cui servono puntelli robusti in termini di sussidi, oltre che di poter fare quel nero che serve loro per sopravvivere? Sarebbe utile, quando si lancia una narrazione, farsi anche qualche domanda sul contesto, non trovate?
E ancora: i mitologici “imprenditori del Nord” sono per caso quelli che hanno votato il progetto nazional-sovranista di Salvini, che mette in un cassetto la questione settentrionale a favore di una politica di sussidi nazionali, magari pagati da Bruxelles? Una specie di Cassa del Mezzogiorno d’Europa, quindi?
Ripeto: non è che gli “imprenditori del Nord” debbano essere politologi, per carità. Magari loro puntavano appunto ad avere sussidi dal Nord Europa e la paciosa possibilità di fare nero alla bisogna, e quindi votare Salvini veniva quasi naturale, dato il panorama italiano. Poi non scordiamo che, se esiste questa classe politica, lo si deve all’elettorato di questo paese, e questo non è un complimento.
Però. Però, oltre ad attendere le reazioni degli “imprenditori del Nord” ai primi provvedimenti legislativi di un governo Draghi, che pare saranno vincolati al principio di realtà e non alla stampa di moneta, forse qualche domanda questa parte di elettorato dovrebbe porsela.
Un Matteo per tutte le narrazioni
Ad esempio: la strategia nazional-sovranista della Lega salvinista serve davvero alla questione settentrionale? Io qualche dubbio ce l’avrei. È utile, avere un leader per tutte le stagioni, che esprime tesi e antitesi? Ci sarà qualcuno disposto a mettere in discussione una leadership che ha gonfiato il consenso del partito senza produrre alcun beneficio, semmai l’opposto?
E quando l’opera di ricostruzione di Draghi sarà terminata, col faticoso accumulo di risorse che i partiti torneranno a dilapidare a colpi di hashtag sui social, e la Lega sarà tornata ad allearsi con la forza ministerial-meridionalista di Fratelli d’Italia, magari organizzando un bel caravanserraglio con Orbàn e qualche polacco che lecca crocefissi, che avremo come risultante, la solita desistenza territoriale nata con la Casa delle Libertà? Siamo sempre al secolo della marmotta italiana, come vedete.
Intanto, attendiamo Draghi e i suoi miracoli. E speriamo che gli imprenditori del Nord smettano di essere casalinghe di Voghera e sviluppino una funzione di utilità che guardi oltre il loro ombelico. Attendendo che analisi sociologiche ci dicano di chi stiamo parlando, esattamente.
Magari a breve chiuderemo il cerchio della duttilità di Salvini e lo sentiremo riproporre i concetti del lontano 2012. Quali? Questi:
«La Lombardia e il Nord l’euro se lo possono permettere. Io a Milano lo voglio, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece è come la Grecia e ha bisogno di un’altra moneta. L’euro non se lo può permettere». Ne è convinto il segretario lombardo della Lega Nord, Matteo Salvini, che oggi ha presentato in piazza Scala a Milano la campagna del Carroccio per i referendum (tra cui uno proprio sulla moneta europea). La proposta era stata già anticipata dal segretario leghista Roberto Maroni nelle scorse settimane, facendo anche riferimento a un articolo del Financial Times che aveva ipotizzato lo scenario del Vecchio Continente diviso in due aree con monete diverse (Ansa, 2 ottobre 2012)
Nel frattempo, la notizia è che Salvini l’è semper lü, e quindi resterà a divertirci ancora per qualche tempo. Sempre che “gli imprenditori del Nord” non decidano altrimenti.