Rendite finanziarie: parole e fatti

Ospitiamo con piacere un intervento dell’amico M N sul tema delle rendite finanziarie, e sulla faciloneria con cui molti “esperti” discettano di esse. M N è economista di formazione, imprenditore per professione, consulente finanziario indipendente per hobby 🙂

    Tutto lo straparlare di tassazione delle “inaudite” rendite finanziarie non permette alla semplice ragione di emergere e di razionalizzare qualcosa di intrinsecamente semplice.
    Il sistema fiscale italiano, ma più in generale i sistemi fiscali mondiali, hanno una vistosa tendenza a tassare il capitale di rischio (l’investimento azionario) a tutto vantaggio del capitale di debito (il prestito bancario/obbligazionario). Infatti, per ogni euro di reddito prodotto dal capitale investito dalle aziende, il primo subisce decurtazioni barbare, mentre il secondo viene invece addirittura detassato, perché gli interessi passivi abbattono l’utile.

    Quindi, nel momento in cui si parla di rendite finanziarie, sarebbe necessario distinguere l’investimento in bot/btp/obbligazioni aziendali dall’investimento in azioni. Il primo ha effettivamente un trattamento fiscale di favore, subendo da un lato una minima tassazione del 12.5% in capo al percettore, e dall’altro un credito di imposta pari al 33% (in capo alla società), con un effettivo sussidio fiscale finale (100 lire di reddito prodotto da quel capitale diventano alla fine 130=100/0.67 x 0.875). L’investimento azionario, invece, somma ad una prima decurtazione del 33% (in capo all’azienda) una seconda decurtazione del 12.5% (in capo al risparmiatore). Quindi, 100 lire di reddito prodotto da quest’altro capitale diventano alla fine 58.625=100 x 0.67 x 0.875. Il quadro che ho appena fatto riguarda il piccolo risparmiatore, perché se hai personalità giuridica rientri per le azioni nel contesto della participation exemption. Il credito d’imposta è stato eliminato dall’ultimo anno, ora è tutto sostitutivo anche sui dividendi, siano essi italiani o esteri: quest’ultimi non vanno messi nel 740 a meno che uno non scelga il dichiarativo (e non lo sceglie nessuno), o l’azienda che ti paga sia domiciliata in paesi tipo le Cayman.

    Infine, risulta qualitativamente difficile parlare di reddito d’impresa e di reddito finanziario azionario come di due cose distinte. Infatti sono la stessa cosa. Il piccolo risparmiatore che investe parte delle sue risorse comprando le azioni Enel diventa socio della stessa Enel. Le sue azioni pagheranno dividendi e si rivaluteranno nel tempo solo se l’Enel produrrà utili. Il reddito finanziario dividendo e rivalutazione in conto capitale) è simbioticamente legato al reddito d’impresa (utile distribuito e utile rinvestito che accresce l’avviamento dell’azienda (capacità di creare ulteriori utili nel tempo).
    Risulta quindi stupido parlare di trasferimento della tassazione dal reddito d’impresa a quello finanziario senza fare le dovute precisazioni.

Ciò di cui scrive M N è l’antico retaggio di un paese caratterizzato da imprese familiari, con evidenti, forti resistenze da parte dell’imprenditore a cedere il controllo a soggetti terzi durante la fase di crescita dimensionale dell’impresa, che richiede robuste iniezioni di capitali. Da questa esigenza/resistenza di base è conseguito lo sviluppo di strutture finanziarie pesantemente fondate sul debito, anziché sul capitale azionario. Quindi, se l’obiettivo deve essere quello di ammodernare la struttura proprietaria delle imprese italiane, stimolare l’investimento in capitale di rischio da parte delle famiglie e scoraggiare forme parassitarie di trading (come quello degli immobiliaristi), il quadro d’intervento è già ben delineato. Tutto il resto sono chiacchiere da bar, cupidigia redistributiva clientelare (Alemanno-style) o furore ideologico (Bertinotti & sodali), quello che arriva a considerare come odiosi rentiers anche i pensionati che staccano la cedola dai titoli di stato in cui hanno investito la propria liquidazione.

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