Nei prossimi 13 mesi in America Latina si terranno ben 11 elezioni presidenziali. Malgrado innegabili progressi compiuti negli ultimi anni, la crescita economica della regione resta nel complesso insoddisfacente, sul piano qualitativo e quantitativo. La prevalenza e persistenza di modelli di gestione dell’economia di tipo predatorio spinge ad analizzare l’area come un caso di studio del fallimento della politica economica, soprattutto nel confronto con il dinamismo che caratterizza Asia ed Europa dell’Est. Il rapporto annuale della World Bank, Doing Business in 2006, può essere d’aiuto nell’identificare le cause del fallimento.
La survey misura il peso della regolamentazione e la situazione dei diritti di proprietà in 155 paesi. Il rapporto di quest’anno dimostra inequivocabilmente che, malgrado le esperienze di economia di mercato sperimentate con qualche parziale successo da alcuni paesi sudamericani, l’economia dell’area resta cocciutamente imprigionata in un modello pesantemente statalista, o più propriamente neofeudale. Prendiamo il caso del Messico, la cui economia resta stagnante malgrado enormi riserve petrolifere e l’adesione al NAFTA, l’area di libero scambio nordamericana. Se i parametri macroeconomici sono nel complesso migliorati, a livello microeconomico le aziende messicane restano bloccate da regolamentazione soffocante ed inadeguata protezione dei diritti di proprietà, fattori che indeboliscono il potenziale competitivo di mercato, gli investimenti ed il recupero di produttività. Nella categoria che la survey di World Bank definisce “hiring and firing”, cioè la liberalizzazione del mercato del lavoro, il Messico si situa alla posizione 125, anche perché i costi medi di rescissione di un rapporto di lavoro ammontano a 75 settimane di retribuzione. Il Messico occupa la stessa posizione (125) in termini di tutela dei diritti degli investitori contro frodi ed altri abusi aziendali, e si colloca al centesimo posto nella categoria “enforcing contracts”, cioè nella affermazione della certezza del diritto, che rappresenta uno degli elementi dell’habitat economico tali da favorire il rischio d’impresa e l’investimento diretto estero.
Il Perù ottiene un posizionamento migliore, ma solo in termini relativi, poiché la risoluzione di un rapporto di lavoro richiede una media di 56 settimane di salario, la pressione fiscale sulle imprese raggiunge il 51 per cento dei profitti lordi, ponendo il paese alla posizione 133 per oneri tributari sulle aziende. Ottenere il rispetto delle obbligazioni contrattuali richiede in media 381 giorni. L’Argentina, caduta vittima della ricorrente maledizione peronista, occupa la posizione 132 nella classifica della flessibilità del mercato del lavoro, mentre le aziende debbono corrispondere all’erario il 98 per cento degli utili lordi, il che spiega la vasta evasione fiscale. Le cose vanno meglio in Cile, che occupa la venticinquesima posizione complessiva, ma che ha visto erosa nel tempo la propria competitività, anche a causa della legislazione restrittiva che il socialista Ricardo Lagos ha imposto al mercato del lavoro. E che dire del Venezuela del compagno Chavez? Da manuale del socialismo realizzato: per flessibilità del mercato del lavoro si situa alla posizione 130, nella tutela dell’adempimento contrattuale è centoventinovesimo, nella protezione dei diritti degli investitori è centoquarantaduesimo, la pressione fiscale sulle imprese tocca il 75 per cento degli utili lordi.
Esiste una chiara correlazione tra libertà economica e prosperità: l’eccesso di tassazione, regolamentazione, e l’insufficiente tutela dei diritti di proprietà danneggiano la crescita economica.
E questo ci porta inevitabilmente alla comparazione con la situazione italiana corrente. Spaventosa la condizione del nostro mercato del lavoro, in termini di flessibilità contrattuale: posizione 138 su 155. Al danno di questa situazione si somma la beffa di un tentativo di recupero di flessibilità complessiva i cui costi si scaricano invariabilmente sulle nuove generazioni, creando un mercato del lavoro duale che genera precarietà oltre ogni limite, e rappresenta il principale freno allo sviluppo di domanda di consumi e reddito. Posizionamenti di classifica piuttosto deludenti anche per la categoria “dealing with licenses” (93), e regolamentazione ancora pesante sulla tutela dei diritti di proprietà. Interessante il posizionamento complessivo della Danimarca, frutto di un grado elevatissimo di libertà economica, anche in termini di deregolamentazione del mercato del lavoro, che fa del paese un’eccezione rispetto alla tradizione scandinava. Bizzarro, a questo proposito, il modo in cui il subcomandante Fausto si è sbarazzato con una scrollata di spalle delle suggestioni del modello danese: “Stiamo parlando di un paese piccolo e caratterizzato da piena occupazione. Quel modello non è applicabile alla realtà italiana”. Come a dire che i mercati del lavoro possono (se proprio è il caso…) essere liberalizzati, ma solo dopo aver raggiunto la piena occupazione, non prima.
Cosa accomuna i paesi che hanno un habitat poco favorevole allo sviluppo dell’attività economica privata? La presenza di una burocrazia asfissiante, dotata di propri fini, spesso (o meglio, quasi sempre) divergenti da quelli per i quali essa è stata creata. Un’eccellente analisi viene fornita dalla teoria della Public Choice, scuola di pensiero economico resa celebre dall’opera del premio Nobel James M. Buchanan, e che applica i principi economici all’azione dei soggetti politici e dei corpi sociali. La deregulation può essere l’opzione più desiderabile per la maggioranza dei cittadini, ma i politici non avranno alcun interesse ad attuarla, quando i più potenti e meglio organizzati constituents (cioè coloro che li eleggono) preferiscono mantenere lo status quo. E tra queste lobbies figurano non solo i sindacati, ma anche le oligarchie economiche e le burocrazie pubbliche. Questo dirottamento del processo decisionale pubblico, in Sudamerica come in Italia, ha strutturalmente impedito la nascita di una robusta classe media, unico antidoto alle rendite parassitarie del potere politico e delle burocrazie pubbliche, perpetuando quel circolo vizioso che è alla base del declino o del sottosviluppo economico. Ecco perché la risposta alla crisi strutturale del modello economico italiano non può venire reiterando e potenziando l’intervento pubblico nell’economia, ma deve avvenire attraverso la rottura delle rendite di posizione parassitarie (burocratiche, sindacali, economiche, degli ordini professionali) che impediscono il dispiegamento delle energie della società civile, che per noi non è quella (autodefinitasi tale) che organizza girotondi in piazza al ritmo di un tintinnio di manette, ma è quella che studia, intraprende, rischia il proprio capitale umano, e dall’azione della quale deriva la crescita economica, ma anche civile, di un paese.
P.S. Questo post partecipa al Weekend Open Trackback di Andrea.