Negli ultimi dieci anni la Spagna ha creato una media di circa un milione di nuovi posti di lavoro l’anno, portando il proprio tasso di disoccupazione dal 20 all’8 per cento. Quindici delle sue cinquanta province si trovano in una condizione di pieno impiego e le prospettive restano favorevoli, come dimostra il fatto che nel 2007 il prodotto interno lordo iberico è previsto crescere del 3.5 per cento. Questa forte espansione economica ha contribuito a favorire un clima di relazioni industriali pacate. Ma il sindacato non è del tutto soddisfatto, e non risparmia critiche al premier Zapatero, soprattutto per il forte aumento di lavoro illegale che il governo sembra tollerare come elemento di flessibilità surrettizia introdotta nell’economia. Il sindacato si preoccupa inoltre per la concentrazione dell’economia spagnola in settori maturi e a bassa crescita di valore aggiunto e produttività.
José Maria Fidalgo, segretario generale della principale organizzazione sindacale spagnola, Ccoo (Confederacion sindical de comisiones obreras) ha avanzato una proposta provocatoria: delocalizzare all’estero le attività meno produttive. In una intervista concessa al Sole24Ore, pubblicata ieri, ha dichiarato:
“In Europa non si può produrre di tutto. Dobbiamo puntare in alto, producendo innovazione e tecnologia. Questo a maggior ragione in Spagna dove, per non fare morire certi settori, importiamo manodopera il più delle volte illegale e a basso costo. Occorre premiare con incentivi fiscali le imprese che fanno innovazione e penalizzare quelle della ‘vecchia economia’. Così facendo si permetterebbe anche di limitare due fenomeni ormai endemici: il lavoro illegale e l’immigrazione clandestina. (…) E’ colpa del governo se questi fenomeni negli ultimi anni sono esplosi, perchè non ha rafforzato le ispezioni nei posti di lavoro e non ha varato una seria politica per gestire i flussi migratori.”
Secondo il sindacato, quindi, occorre regolare l’immigrazione, passata in Spagna dal 1996 ad oggi dall’1 al 10 per cento della forza lavoro, e prevalentemente rappresentata da lavoratori a bassa qualificazione e bassa produttività. Viste dall’Italia, le proposte di Fidalgo sono rivoluzionarie quanto può esserlo un sindacalista di sinistra che riesce a comprendere che la crescita del prodotto interno lordo, cioè della ricchezza prodotta annualmente da un paese, è funzione della crescita della produttività; che quindi è necessario che il sindacato “faccia sistema” per promuovere l’evoluzione del sistema-paese verso settori a maggior valore aggiunto; che occorre comprendere che l’importazione di manodopera immigrata e unskilled serve solo a deprimere la crescita dell’economia, attraverso il ristagno e la persistenza di settori a basso valore aggiunto, e a restare al margine del mainstream della divisione internazionale del lavoro.
Un sindacato, quello spagnolo, che appare agli antipodi della tradizionale mistica sindacale italiana, basata sulla conservazione dei settori e delle aziende decotte e a bassa produttività, su un modello ideologicamente conflittuale di relazioni industriali e, su per li rami, fino alla cogestione della politica economica secondo modelli di redistribuzione neopauperista di una torta sempre più piccola. Quando tentiamo di investigare le cause del differenziale di crescita tra il nostro paese ed altri che non sono esattamente modelli di darwinismo sociale e liberismo sfrenato, dovremmo riflettere sullo “svantaggio competitivo” che ci deriva da una classe politica, sindacale e (in parte) imprenditoriale che fa dell’inadeguatezza culturale la matrice del nostro declino.