Il Soviet in barile

L’adeguamento dei tassi di interesse alle disposizioni di politica monetaria decise dalla Banca centrale europea deve essere contestuale: una volta deciso di adottare le disposizioni della Bce, le banche devono cioè obbligatoriamente variare sia i tassi attivi che quelli passivi “con modalità tali da non portare pregiudizio al cliente”.

E’ quanto stabilisce una nota della Direzione Generale del Ministero dello Sviluppo Economico preposta all’orwelliana funzione di “armonizzazione del mercato e tutela dei consumatori“, in cui si chiariscono i termini di applicazione di alcune norme del primo pacchetto Bersani sulle liberalizzazioni.
L’adeguamento ai rialzi o ai ribassi del costo del denaro decisi dalla Bce, si legge nel documento che interpreta le norme, “resta una facoltà discrezionale della banca” (non a caso), ma “dal tenore della disposizione sembra desumibile che la contestualità debba operare nei confronti dell’insieme dei tassi attivi e passivi relativi a medesime tipologie di contratti“. Prevedibile il giubilo delle associazioni dei consumatori, l’ultimo (o il primo?) bastione italiano di collettivismo indotto da analfabetismo economico, alcune delle quali hanno già strillato la notizia sui propri siti, con toni e modi che ricordano quelli di un manzoniano “assalto ai bancomat”.

Prendiamo ad esempio Adiconsum, che annuncia la prossima nazionalizzazione del sistema creditizio italiano, a mezzo di spesa proletaria ed azzeramento di “spese di chiusura conto relative a deposito titoli, conti correnti, aperture di credito, bancomat e carte di credito. Non solo. Il divieto si applica, soprattutto a qualsiasi voce contrattuale indicata come ‘costo di chiusura’“.

In pratica, secondo Adiconsum, dall'”interpretazione autentica” del primo pacchetto Bersani, fornita dal Soviet per l’amore e l’armonizzazione del consumatore rieducato, si evince che le banche sarebbero inibite dal praticare qualsivoglia tipologia di prezzo per l’erogazione di un servizio, per il quale esse impiegano personale e risorse amministrative proprie e altrui, come nel caso del trasferimento dei dossier titoli, che sono accentrati sulla Monte Titoli.

Adiconsum torna anche sul tema della variazione automatica (secondo i loro desiderata) dei tassi attivi per la clientela al variare dei tassi di riferimento decisi dalla Banca Centrale Europea. In pratica, ogni volta che l’istituto di emissione dell’Eurozona alza il tasso di riferimento, le banche dovrebbero aumentare la remunerazione dei conti correnti. Come abbiamo già scritto, il buon senso e la disciplina dei contratti privati suggeriscono che tale previsione di legge deve intendersi nel senso che, ogni qualvolta una banca offre una remunerazione su proprie passività che è contrattualmente legata al tasso di riferimento della Bce, essa dovrà provvedere a variare tale remunerazione al variare del tasso di riferimento medesimo, come sembra suggerire anche la circolare interpretativa ministeriale. Ma se tale clausola contrattuale di adeguamento non è prevista nel contratto tra banca e cliente, non c’è modo di imporla all’istituto creditizio senza violare l’autonomia dei rapporti contrattuali privati e trasformare in tariffa amministrata quello che è e dovrebbe restare un prezzo di mercato.

La remunerazione dei conti correnti dovrebbe essere il prezzo che le banche devono pagare per la propria raccolta diretta. Ma ciò non è necessariamente sempre vero. Esiste una molteplicità di canali di raccolta diretta, oltre al conto corrente: il mercato interbancario, i certificati di deposito, le obbligazioni bancarie, i depositi a risparmio vincolati e liberi. Ad esempio, se la banca raccoglie fondi emettendo certificati di deposito la cui remunerazione è contrattualmente legata alle variazioni del tasso euribor, la disposizione bersaniana appare pleonastica, populista e (soprattutto) inapplicabile.

Esiste ancora qualcuno convinto che la remunerazione del conto corrente rappresenti una forma di impiego del risparmio? Si, esiste, ma è riconducibile esclusivamente alla malafede fiscale di questo governo, che farnetica di “armonizzazione” della tassazione sulle odiate “rendite finanziarie”, inclusi i bot dei pensionati. Per il sistema bancario (non solo italiano), invece, il conto corrente è uno strumento a servizio della gestione di incassi e pagamenti di famiglie ed imprese, e come tale è razionale considerarlo sostanzialmente infruttifero.

Non a caso l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) aveva emesso nell’agosto scorso una circolare, ad uso dei propri associati, relativa all’interpretazione dello ius variandi nelle condizioni contrattuali, definendo l’ambito di applicazione delle disposizioni. Il nuovo articolo 118 non si dovrebbe applicare, secondo l’associazione, alle “pattuizioni che prevedono oneri economici legati a parametri scelti in anticipo dalle parti e quindi sottratte di fatto alla loro volontà”. E si capisce il motivo: tali pattuizioni fanno parte dell’autonomia contrattuale tra le parti, a meno di stabilire che i contratti bancari non possano godere di tale autonomia. Quella circolare è stata ritirata dall’ABI, dopo un intervento critico dell’Antitrust, ma la problematica resta irrisolta, e potrebbe in un futuro non troppo lontano essere sottoposta al giudizio dei tribunali civili. Nel frattempo, il governo si trova costretto ad emettere pilatesche “interpretazioni autentiche” per tenersi buone le associazioni dei consumatori senza provocare la fuoriuscita del sistema bancario italiano dal mondo occidentale.

Ma la concorrenza è decisamente altra cosa.

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