Amici miei, liberisti immaginari

Negli ultimi due giorni abbiamo letto elogi sperticati del Cav., nella sua nuova veste di statista quieto e dialogante con l’opposizione. Ieri abbiamo sentito il neo-ministro per l’Attuazione del Programma, Gianfranco Rotondi, a Ballarò, parlare di nascita della “Terza Repubblica”, quella in cui è ufficialmente cessata la pregiudiziale antiberlusconiana da parte dell’opposizione parlamentare. O di parte di essa, visto che Di Pietro ha deciso di perseguire pervicacemente la sua strategia di nicchia grillesca, e finora il mercato elettorale gli ha dato ragione, aumentando significativamente il suo “fatturato politico”. Si dice anche che Berlusconi abbia una squadra di ghost-writer che gli distilla il comune sentire degli italiani.

Berlusconi è talmente ecumenico che ha deciso di ingaggiare come portavoce di Forza Italia (ma non stavamo parlando del Popolo della Libertà?) un giovanotto che lo ha paragonato a Wanna Marchi, e ad altro. Never mind, solo i cretini non cambiano mai idea, e Capezzone è notoriamente uomo di intelligenza non comune. Pare inoltre che gli spin doctors abbiano suggerito al Cav. di prendere le distanze dal liberismo, e di utilizzare un registro di comunicazione rassicurante e “protettivo”. E così stamane, nel corso della replica al Senato sulla fiducia al governo, Berlusconi ha sintetizzato la propria strategia neocentrista:

“Se l’opposizione oggi non si definisce più dirigista e statalista, noi non siamo più quelli della rivoluzione liberista degli anni Ottanta.”

E’ strano però: Berlusconi ha governato per un intero quinquennio (non prendiamo in considerazione i pochi mesi del 1994, per evidenti motivi), eppure non abbiamo mai rinvenuto, nella sua azione di governo, tracce di qualcosa che potesse anche solo lontanamente essere definito “liberista”. Ci saremo distratti. Resta da capire se questo nuovo stile di comunicazione è funzionale a gestire la difficoltà di una situazione economica che per il nostro paese diventa ogni giorno più acuta, e mira quindi a non spaventare i cittadini, che pure sono stati (meritoriamente) avvertiti già in campagna elettorale della necessità di “scelte impopolari” che il governo si sarebbe trovato ad assumere; oppure se Berlusconi si è davvero convinto di essere fanfaniano, ed in quel caso il prezzo lo pagheranno gli italiani, in termini di accelerazione dell’ormai più che evidente declino economico, sociale e civile del paese. E sarà un costo salatissimo.

In attesa di conoscere i dettagli operativi, possiamo solo confermare la nostra (ed altrui) perplessità di fronte ad alcune anticipazioni. Per ora impazza il tremontismo declamatorio e moralista, ma del doman non vi è certezza. Certo, avere alla guida dell’economia nazionale un uomo che si è arricchito grazie ai bizantinismi della legislazione fiscale e istituire un ministero per la delegificazione sembrano confermare l’afflato ecumenico, avvolgente ed onnicomprensivo di questo nuovo Berlusconi.

P.S. Piccola nota a margine, nemmeno troppo tecnica: le retribuzioni dei top manager italiani sono troppo alte? Se sì, lo sono rispetto al mercato internazionale dei manager o a causa di ipotetici privilegi fiscali su alcune componenti tali redditi, ad esempio le stock options? Se vale la prima ipotesi, occorre rimuovere tali rendite di posizione. Ad esempio, migliorando la governance aziendale, evitando che si formino mandarinati manageriali autoreferenziali, contro i quali l’assemblea degli azionisti è disarmata. E magari con un azionista meno distratto, come nel caso delle imprese pubbliche o delle banche controllate da istituzioni pubbliche come le Fondazioni. Se vale la seconda ipotesi è necessario ricondurre tutti i compensi nell’alveo dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, e della sua progressività. Per armonizzare equità ed efficienza, senza demagogie e riedizioni dello slogan “anche i ricchi piangano” di rifondarola memoria.

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