Cambiare registro

di Mauro Gilli e Andrea Gilli

Volano gli stracci tra Il Riformista e Christian Rocca, giornalista de Il Foglio. La disputa riguarderebbe un libro di Rocca, “Cambiare Regime“, pubblicato da Einaudi quasi tre anni fa, che avrebbe causato le dimissioni di Andrea Romano dalla casa editrice torinese, dato il malcontento che la decisione di pubblicare questo e altri libri avrebbe provocato all’interno della casa editrice di via Biancamano.

Gli scambi di accuse vertono sulla presunta essenza “di sinistra” o “di destra” del libro. Non vogliamo entrare nel merito di questo dibattito tipicamente italiano nel suo provincialismo, né indagare sul profluvio di stizzose polemichette da cortile che hanno coinvolto protagonisti e comprimari di questo ennesimo gioco di società che sarebbe piaciuto a Giorgio Gaber.

Il nostro parere sulla scelta di Einaudi di pubblicare questo libro verte su un altro aspetto – la assai scarsa qualità di “Cambiare Regime”. Verosimilmente, dietro alla decisione di pubblicare il volume di Rocca c’erano delle considerazioni commerciali. Il problema è che una casa editrice seria, come Einaudi vuole essere, dovrebbe vagliare la qualità dei lavori che pubblica. Altrimenti si finirebbe per pubblicare tutto ciò che vende, indipendentemente dalla qualità.

Il libro di Rocca è basato su argomentazioni superficiali e del tutto inconsapevoli degli studi in materia (ci riferiamo alla prima parte del libro, nella quale viene esposta la tesi secondo cui le democrazie sono pacifiche). Einaudi avrebbe reso un servigio più onesto ai propri lettori se avesse chiesto a Rocca di rivedere il testo, integrandolo con uno sguardo alla letteratura esistente, e rendendolo meno “manifesto politico”. Ciò non è successo. Il risultato non è tanto quello di avere un libro schierato ideologicamente a destra (l’accusa lanciata da Il Riformista). Piuttosto, il risultato è che Einaudi si è trovata a pubblicare un libro di pessima qualità. Un problema, a nostro modo di vedere, ben più serio. Da una casa editrice come Einaudi ci si può aspettare che pubblichi anche libri “schierati”. Ma non è accettabile che smetta di garantire un livello minimo di qualità.

Rocca è un giornalista. Ad un giornalista non è richiesta una conoscenza approfondita e aggiornata degli studi accademici in un dato campo. Ciò non giustifica però una trattazione faziosa e superficiale di argomenti complessi. Chi potrebbe prendere seriamente in considerazione le analisi e i suggerimenti di un giornalista che si occupa di divulgazione medica, se questi ignorasse l’esistenza della chemioterapia? Questo è il problema centrale del libro di Rocca: ignora totalmente quanto è stato scritto e detto relativamente all’argomento da lui trattato – facendo sorgere seri dubbi circa la sua conoscenza in materia.

La prima parte del libro ha due tesi: le democrazie sono pacifiche; e dunque, esportare la democrazia è nel nostro interesse perché ci garantirebbe un futuro di pace. La superficialità con la quale Rocca affronta questo tema emerge fin dalla prima riga della prima pagina: “E’ molto semplice, se gli altri sono liberi, noi siamo più  sicuri“, scrive. Forse Rocca non sa che nelle scienze sociali ci ben sono poche cose “molto semplici”. Al contrario, tutti (enfasi: tutti) gli studiosi seri, generalmente sottolineano la complessità dei fenomeni che vogliono studiare, concludendo che è difficile (non semplice) dare una spiegazione certa. Rocca non pare minimamente turbato dal dubbio. Abituatosi a sbugiardare i corrispondenti italiani dagli Stati Uniti di Corriere e Repubblica, sembra credere di essere il depositario della Verità – al limite del religioso. E così, finisce per descrivere come un dato di fatto incontrovertibile quella che in verità è una tesi (neppure una teoria) molto controversa.

In Italia il libro ebbe un discreto successo. In modo del tutto singolare, invece di essere recensito da politologi, e in particolare da studiosi di relazioni internazionali, fu recensito da giornalisti, storici, e militanti politici. Ovviamente non vogliamo discriminare: è giusto che ci siano opinioni diverse. Ma per tornare all’analogia con un libro che tratta di medicina, forse, sarebbe il caso di sentire anche cosa dice un medico affermato in materia, insieme all’opinione di tanti “non addetti ai lavori”. Forse, i recensori dei giornali Italiani avrebbero potuto chiedere a qualcuno che esperto lo è davvero, no?

Ebbene, quali sono i problemi del libro? Ci sono due grandi problemi. Il primo è che la democrazia è difficile da esportare – problema sul quale Rocca sorvola allegramente. Il secondo è che la tesi secondo cui le democrazie sono pacifiche, e quindi esportare la democrazia è nel nostro interesse, è un’affermazione estremamente controversa, se si vuole essere gentili.

Veniamo al primo problema. Per Rocca, il processo di democratizzazione è qualcosa di facile e rapido ad affermarsi. Infatti, ci ricordiamo tutti fin troppo bene cosa è successo in Iraq: rovesciato Saddam, gli iracheni sono corsi al museo per portarsi qualche pezzo di antiquariato a casa. Poi hanno iniziato ad ammazzarsi a vicenda. Poi hanno iniziato ad ammazzare gli americani. Poi hanno iniziato a fare la pace con gli americani ma hanno ricominciato a farsi la guerra. Chissà, un giorno avremo un Westminster in riva al Tigri e all’Eufrate. Attenderemo con pazienza quel giorno. Intanto, il futuro dell’Iraq è tutt’altro che certo. Ed è notizia di qualche giorno fa, che il governo iracheno vuole dotarsi di armi nucleari (giusto per continuare una tradizione passata).

Il punto centrale è che la democrazia è il prodotto di un insieme variegato di fattori che operano congiuntamente per decenni, se non secoli: dall’omogeneità etnica a quella religiosa (Sartori e Huntington), alla presenza di una cospicua classe media (Mill, Tocqueville, e Barrington Moore), dall’esistenza di un apparato statale efficace ed efficiente (Polanyi e Tilly) che garantisca ordine e stabilità interna (Hobbes, Locke, Tilly, e Huntington), fino all’assenza di immediate minacce esterne (Hinze) e alla presenza di condizioni naturali e geologiche favorevoli (Diamond e Acemoglu). Pensare che essa possa essere trasportata come una sorta di Disneyland in un volo diretto Orlando-Baghdad è tanto grossolano quanto assurdo.

Ovviamente il problema della democratizzazione e dello sviluppo politico e sociale è largamente conosciuto tra i politologi. E’ lo stesso problema che incontreremmo se volessimo far crescere le uve nebbiolo in Alaska. Con la tecnologia moderna saremo forse in grado di far crescere l’uva, ma non avremo mai un Barolo delle Langhe. Se Rocca avesse sfogliato, anche velocemente, qualche testo di base in questo campo se ne sarebbe presto reso conto. Invece ha preferito dare per scontato qualcosa che scontato non è.

Il secondo problema del libro riguarda la tesi secondo cui le democrazie sarebbero pacifiche. Questo aspetto è particolarmente importante. Infatti, anche assumendo che esportare la democrazia sia facile, se questa tesi è sbagliata, tutto il lavoro di Rocca verrebbe a crollare come un castello di carte. Anche qui, Rocca ha preso come verità assodata quella che in verità è un proposizione estremamente controversa – a dispetto dell’altissimo numero di pubblicazioni in materia che sostengono il contrario, dando ulteriore prova di quanto affrettata sia stata la sua analisi.

Rocca (pensiamo inconsapevolmente) cita i dati del Correlates of War Project (COW), il più grande database al mondo sui conflitti armati tra stati dal 1816 ai giorni nostri, concludendo che non c’è mai stata una guerra tra democrazie in questo arco temporale. Ovviamente se avesse approfondito questo tema, invece di limitarsi a riportare i dati presi da una fonte secondaria, avrebbe scoperto che questa argomentazione è estremamente debole e suscettibile di molte critiche. Se ritiene di conoscere i dati che ha usato, lo invitiamo a rispondere sul merito a questi argomenti. Saremo lieti di replicare.

In primo luogo, non è vero che non ci sono state delle guerre tra democrazie, ed è singolare che Rocca non se ne sia accorto visto che nella bibliografia del suo libro cita un libro di Joanne Gowa, Ballots and Bullets, che affronta, tra gli altri, proprio questo argomento. Delle due l’una: o non ha letto il libro; oppure lo ha letto e non lo ha capito.

In secondo luogo, tutto il dibattito sull’argomento gira intorno al tipo di definizioni adottate di “guerra” e di “democrazia”. Molti scontri militari tra democrazie vengono ignorati dal COW e da tutti gli studi in materia per meri problemi di ricerca – un fatto che tutti (enfasi: tutti) gli studiosi seri riconoscono. Uno studio accademico volto a valutare se ci sia stata o meno una guerra tra democrazie, deve prima di tutto definire in modo chiaro cosa sia una guerra e poi cosa sia una democrazia. Ciò che di primo acchito può sembrare evidente, quasi banale, è invece assai difficile e suscettibile di critiche quando è volto a uniformare dei dati in modo da renderli analizzabili da metodi statistici.

Per guerra, il COW definisce uno scontro militare tra due paesi sovrani che determini più di 1000 morti. Uno scontro militare che coinvolga meno di 1000 morti non viene dunque considerato una guerra. Ciò significa che uno “scontro militare” tra democrazie non viene considerato dal COW come una guerra tra democrazie. Per esempio, l’affondamento della nave americana US Liberty, nel 1967, da parte dell’esercito israeliano, che portò alla morte di tutto l’equipaggio non può essere considerato una guerra per la suddetta ragione. Lo stesso è vero per il bombardamento della Finlandia nel 1941 da parte dell’Inghilterra.

Analogamente, la definizione sopra citata omette tutte le guerre civili, anche quelle interne alle democrazie, poiché non si tratta di una guerra tra due stati sovrani. Ciò spiega come mai la guerra civile americana non venga mai citata come esempio illustre di guerra tra democrazie – ricordiamo a proposito, per chi fosse convinto che le democrazie sono pacifiche, che fu la guerra più sanguinosa nella storia degli Stati Uniti.

Questi problemi non sono secondari. La tesi secondo cui le democrazie sono pacifiche si basa sull’assunto che i paesi democratici, a meno di una minaccia imminente, siano portati a risolvere le loro controversie in modo pacifico. Ma se ciò non è vero, la solidità dell’argomentazione di Rocca diventa assai dubbia. In altre parole, esportare la democrazia non è più “nel nostro interesse” se viene a mancare la certezza che le democrazie sono pacifiche.

Anche assumendo che non ci siano mai state guerre (o scontri militari di alcun genere) tra democrazie, rimarrebbe sempre da stabilire quale sia la causa – cosa che Rocca non fa (o meglio, tenta di farlo a suon di slogan, scrivendo che le democrazie si sfidano sui campi di calcio, e non sui campi di battaglia). Il fatto che non ci sia mai stata una guerra tra democrazie, non è di per se’ sufficiente per affermare che le democrazie siano pacifiche. La letteratura in materia non manca. Anzi, è vastissima. La “Democratic Peace Theory” è uno degli argomenti su cui si è scritto maggiormente negli ultimi anni, ed è incredibile che Rocca abbia tralasciato totalmente questo dibattito, quasi come se non ci fosse stato (e ancora più incredibile è che Einaudi abbia avallato tutto ciò).

Senza voler riepilogare il dibattito esistente, sono sufficienti alcune considerazioni per mostrare la fallacia dell’argomento. Semplicemente, la pace tra democrazie (in Europa, dal secondo dopo guerra) potrebbe essere dovuta ad altri fattori. Gowa ha sottolineato il ruolo della minaccia sovietica, tesi corroborata dai timori di Francia e Inghilterra relativamente all’unificazione tedesca dopo la fine della guerra fredda (come sottolineato da Wolforth e Brooks). Mearsheimer ha sottolineato l’assenza di opportunità per andare in guerra. Le basi americane dislocate in tutta Europa e “l’articolo 5” della NATO hanno evidentemente giocato un ruolo di non poco peso, risolvendo quello che gli studiosi di relazioni internazionali chiamano “security dilemma“, permettendo così la cooperazione tra gli Stati nel continente europeo. In ultimo, giusto per ricordare che le correlazioni possono indicare una relazione causale inversa, rispetto a quella più intuitiva, Etzioni ha sottolineato come in verità, la pace in Europa (riprendendo quindi gli scritti di Hinze) non sia una conseguenza della natura democratica degli stati europei. Al contrario, lo sviluppo democratico in Europa sarebbe stato permesso proprio dall’assenza di minacce esterne.

Invece di sostenere che una politica estera orientata ad esportare la democrazia è “di sinistra”, Rocca avrebbe fatto meglio a spiegare innanzitutto se questa sia una davvero una strategia realizzabile (e in caso affermativo avrebbe dovuto dire come e dove); e infine avrebbe dovuto spiegare in maniera argomentata – non tramite degli slogan – per quale motivo dovrebbe essere nel nostro interesse. Einaudi ha pubblicato un libro che invece di fare una trattazione rigorosa di una questione complessa (facendo divulgazione seria anche senza spingersi al trattato di relazioni internazionali), si è limitato a offrire una prospettiva parziale, limitata e ideologica, giungendo poi a considerazioni morali (esportare la democrazia è “di sinistra”) del tutto fuori luogo. Come abbiamo scritto, non è nostra intenzione affrontare queste ultime. Lasciamo ai lettori decidere se queste rappresentino il difetto più grave del libro di Rocca.

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