Le grandi banche americane, lo diciamo da qualche tempo, hanno vinto la partita per la sopravvivenza. Con alcune strategie di cattura regolatoria destinate a entrare nei libri di testo delle business schools del futuro, sono riuscite a disinnescare il rischio della nazionalizzazione. I manager responsabili della devastazione prodotta dal credito facile sono tutti al loro posto. Hanno incassato decine di miliardi di fondi federali senza fare una piega, ottenendo peraltro innocue azioni privilegiate e non le ben più pericolose (per il loro potere) azioni ordinarie. Ciò ha permesso agli azionisti di questa categoria, pur se pesantemente ammaccati, di salvare la pelle.
I creditori ordinari, cioè gli obbligazionisti, sono riusciti ad evitare di essere sottoposti alla tosatura dell’haircut e del debt-equity swap, cioè della riduzione del valore nominale del proprio credito e della sua parziale trasformazione in azioni. Sorretti in ciò dai maggiori asset manager del paese, tra i quali Pimco e BlackRock, il cui interesse nell’evitare questo evento era praticamente questione di vita o di morte. Poi le banche hanno ottenuto linee di credito a tasso prossimo allo zero da parte della Fed, e stanno impiegando quel denaro con robusti spread, portandosi a casa un grasso margine di interesse (il differenziale tra tassi a credito e a debito). La loro redditività da trading è aumentata a causa della sparizione di alcuni concorrenti: ora la torta è temporaneamente più piccola, ma ci sono meno commensali a tavola, come indicato anche dall’allargamento dei differenziali tra prezzo-lettera e prezzo-denaro, cioè i prezzi a cui le banche vendono e comprano in contropartita della clientela nelle operazioni di brokerage e di market making.
Restava il piccolo problema delle svalutazioni di crediti tossici ed ammalorati, ma anche a quello si è posto rimedio allentando il FASB 157, cioè consentendo alle banche di valorizzare a propria “sensazione” i titoli tossici. Quando i medesimi giungeranno a scadenza, il problema sarà auspicabilmente risolto dalla riparazione dei bilanci avvenuta nel frattempo. Per aiutare la quale ci sarà poi anche il PPIP, con tutte le manipolazioni del caso. Lo stress test di Geithner arriverà in porto solo dopo la earnings season, quindi tra un paio di settimane, ma sappiamo già che sarà un non-evento, e comunque la Fed (che di teoria dei giochi se ne intende) ha già ordinato alle banche di cucirsi le labbra sull’esito. Per fare filotto, dopo una simile sequenza di buone notizie, mancava la clamorosa sorpresa di utili al rialzo, che è arrivata puntuale questa settimana, con Wells Fargo. Che poi agli utili trimestrali abbia pesantemente contribuito il dimezzamento delle svalutazioni per crediti inesigibili (e proprio nel trimestre finora peggiore per i bad loans), è un accidente della storia, il mercato ha voglia di lasciarsi alle spalle i tempi grami e tornare a pensare alla grande.
Ultima tappa di questa cavalcata trionfale, il rimborso dei fondi federali di emergenza. Molte banche hanno espresso la volontà di liberarsi di questa zavorra di populismo congressuale, col suo carico di limitazioni ai compensi dei manager ed il continuo rischio di revisioni retroattive dei contratti. Per il rimborso occorrono però mezzi freschi e soprattutto propri, non certo debito. E così, dopo l’exploit di Wells Fargo, a giorni sarà il turno di Goldman Sachs di annunciare un trimestre da leoni, e all’annuncio farà seguito un bell’aumento di capitale, con cui verrà rimborsato il bailout federale.
Resta il non marginale problema dei warrant azionari che il Tesoro ha ottenuto nel salvataggio. Le banche vorrebbero farli diventare carta straccia, e limitarsi a rimborsare le azioni privilegiate. Tesoro e Casa Bianca si oppongono, per ora. Visto il copione, la resistenza durerà poco. I libri di storia ricorderanno questa crisi come il maggior episodio di corporate welfare della storia americana, col trasferimento di imponenti risorse fiscali dai contribuenti ad alcune imprese private. Il saldo netto, se i rimborsi andranno a buon fine, sarà relativamente contenuto, parlando in termini puramente contabili e di costi monetari. Ma l’onere per la collettività , in termini di costo medio dell’accesso al credito, di istituzioni troppo grandi e politicamente connesse per fallire, e di vulnus al funzionamento del mercato (quello finanziario, il più importante di tutti), sarà enorme e permanente.
E, aggiungendo beffa a danno, dovremo pure leggere che “il mercato ha fallito”.