Mentre Francia e Germania sembrano essersi poste su un sentiero di divergenza fiscale che potrebbe minare dalle fondamenta la costruzione europea, e mentre in questi giorni assistiamo, nel dibattito pubblico, ad un’ulteriore divaricazione tra la possibilità di un secondo stimolo fiscale negli Stati Uniti contrapposta alle elaborazioni teoriche sulle exit strategies che sembrano aver catturato l’agenda pubblica nel nostro continente, tra gli economisti si discute su quale strategia di ripresa l’Europa possa permettersi, dando per scontata l’impraticabilità di ricorrere ai pesantissimi stimoli keynesiani utilizzati dagli Stati Uniti.
Secondo Kenneth Rogoff, che ne ha scritto per Project Syndicate, l’Europa deve recuperare crescita di lungo termine non con politiche fiscali espansive bensì attraverso riforme strutturali quali un mercato del lavoro flessibile, un mercato finanziario pan-europeo e l’apertura del commercio estero. L’opzione strategica suggerita da Rogoff è razionale, vista l’impossibilità per l’Europa di rincorrere gli Stati Uniti sul sentiero dell’aggressività nell’espansione fiscale e monetaria. I motivi sono intuibili: dal versante fiscale non esiste una politica europea comune e centralizzata, pur nel contesto di un quadro di federalismo fiscale. Analogamente, sul piano della politica monetaria, la Bce non è la Fed, sia per la natura del mandato (pura stabilità monetaria nel primo caso, obiettivo duale inclusivo del pieno impiego nel secondo), sia per la segmentazione dei mercati finanziari europei che rende complessa e macchinosa ogni ipotesi di easing quantitativo, come confermato dalla decisione della Bce di acquistare a fermo covered bonds, che rappresentano il minimo comun denominatore tra mercati nazionali del credito fortemente differenziati per strumenti di finanziamento in essi prevalenti (il credito bancario prevale in Germania ed in Italia, lo sconto di carta commerciale in Francia, le cartolarizzazioni in Spagna e così via).
Sfortunatamente, gli stati nazionali europei si stanno muovendo in direzione opposta a quella auspicata da Rogoff, ricorrendo a forme larvate di beggar-thy-neighbour, come quelle che stiamo vedendo nel settore auto, con la Francia che preme per mantenere in attività impianti domestici inefficienti e costosi, e la Germania che si sta esibendo ormai da mesi in un balletto molto “italiano” sul futuro di Opel. Per non parlare dell’implosione per linee nazionali delle banche transfrontaliere, come bene illustrato dalla vicenda Fortis.
A questi problemi, che potremmo definire di “politica industriale” nazionale, si aggiunge l’atteggiamento oggi prevalente nei confronti della costruzione europea, vista ormai come un ingombrante simulacro da sterilizzare appena possibile. E’ il caso della recente sentenza della corte costituzionale tedesca, che ha stabilito la compatibilità del Trattato di Lisbona con la legge fondamentale del paese, ma ha posto numerosi paletti all’ulteriore sviluppo dell’integrazione europea. Ad esempio, in materia di legislazione penale, operazioni militari, politica fiscale e sociale, istruzione, cultura, media e relazioni con gruppi religiosi la sovranità riposa nella costituzione tedesca, e non è (ad oggi) cedibile. Il che significa che ogni e qualsiasi tentativo di spingere Lisbona oltre i pur limitati traguardi finora raggiunti, richiederebbe altrettante preventive modifiche costituzionali.
Date queste premesse, e quello che Wolfgang Munchau definisce l’attuale mood nazionalistico post-bismarckiano della Germania, possiamo attenderci un periodo di forti turbolenze nella navigazione europea, una minore efficacia delle politiche macroeconomiche, a causa dell’allentato coordinamento intracomunitario, la persistente tentazione a ricorrere a forme più o meno larvate di protezionismo e, più in generale, azioni dagli esiti subottimali. Il che si tradurrà in crescenti tensioni interne all’Unione, oltre che nel rischio tangibile di una Eurozona che esce da questa crisi con un’ulteriore limatura al proprio già limitato potenziale di crescita economica di lungo termine. Sembrano concetti astratti, ma da essi discendono conseguenze fondamentali quali ad esempio l’occupazione e la posizione nei confronti dell’immigrazione.
In questo senso, Eurolandia somiglia all’Italia, e viceversa. Si attende che qualcuno o qualcosa sollevi la barca dalle secche in cui è finita, e nel frattempo si cerca di preservare lo status quo. Data la situazione, questa rischia di essere una pericolosa illusione.