Non si impiccano le idee all’ignoranza

Su il Giornale, Vittorio Macioce tenta una difesa, neppure troppo d’ufficio, dei concetti che i leghisti prima ed il premier poi hanno espresso negli ultimi giorni sulla differenziazione salariale tra aree territoriali. Tenete a mente quest’ultima espressione, che abbiamo messo in corsivo, ci servirà tra poco. Chi ha mai parlato di gabbie salariali?, si chiede Macioce. Presto detto: la Lega e il premier. Riascoltiamo le parole dei protagonisti.

Lo scorso 4 agosto Roberto Calderoli, commentando i dati di Bankitalia sul differenziale di costo della vita tra Nord e Sud, dichiarava:

“Alla luce della volontà espressa dal governo di affrontare, una volta per tutte, la questione meridionale, anche attraverso la fiscalità di vantaggio, e ritenendo altrettanto necessaria e urgente la risoluzione della questione settentrionale, è evidente che andrà posta attenzione alle nostre proposte riguardanti le buste paga parametrate sul reale costo della vita nelle diverse aree del Paese”

Berlusconi rinforzava il concetto nella ormai celebre intervista del 9 agosto a il Mattino, quella della quadratura del cerchio, appiattendosi sulle posizioni leghiste:

“Quanto alle gabbie salariali tutti condividono l’esigenza di rapportare retribuzione e costo della vita al territorio. Legare i salari ai diversi livelli del costo della vita fra Sud e Nord risponde a criteri di razionalità economica e di giustizia”

Ebbene, sul piano definitorio avere “buste paga parametrate al costo della vita delle diverse aree del paese”, così come “rapportare retribuzione e costo della vita al territorio”, equivalgono esattamente alla definizione di gabbie salariali, cioè ad una differenziazione salariale tra aree territoriali, come quella abolita quarant’anni fa. Non si tratta di decentramento della contrattazione collettiva su base aziendale e territoriale, come invece precisa ora il premier.

Se la Lega riuscisse a capire che le retribuzioni reali di lungo periodo derivano dalla crescita della produttività e non da un non meglio precisato “costo della vita”, eviterebbe di fare propaganda di infimo conio nel mese più sciocco dell’anno per il dibattito pubblico italiano. I leghisti dovrebbero poi avere l’onestà intellettuale di dire ad un operaio bergamasco che il suo salario, a seguito della contrattazione decentrata, potrebbe risultare anche di molto inferiore a quello di un collega bresciano o trevigiano, e viceversa. Ma se dicesse questo perderebbe d’incanto gran parte dell’appeal che oggi esercita soprattutto sui ceti popolari del Nord.

E ancora: se è stato firmato il famoso accordo del 22 gennaio tra governo e parti sociali, ad esclusione della Cgil, sulla riforma dei contratti di lavoro, che motivo avrebbe la Lega per invocare la tutela territoriale del potere d’acquisto? Stiamo parlando dello stesso obiettivo del protocollo di gennaio o di qualcosa di diverso? Se la risposta corretta è la prima, si tratta di una reiterazione priva di senso, visto che la Lega è al governo ed era verosimilmente informata dei termini di quell’accordo. Salvo naturalmente passare dai grandi princìpi all’attuazione operativa, un po’ come per il federalismo. Se invece la risposta corretta è la seconda, la Lega dovrebbe spiegare cosa ha in mente, magari precisando che punta a dare attuazione operativa al protocollo di gennaio dirottandolo verso la centralizzazione locale della struttura retributiva.

Ma finché la Lega non uscirà dalla nebbia propagandistica in cui ama avvolgersi, questo dibattito resterà un passatempo da ombrellone, difese d’ufficio incluse. Quanto al premier, sarebbe opportuno che smettesse di fare l’eco alle componenti più vocali della propria maggioranza, salvo poi dichiararsi regolarmente incompreso pochi giorni dopo, e tentasse di prendere in mano l’iniziativa. Ma forse stiamo davvero sopravvalutando la conoscenza dei più elementari principi economici da parte dei protagonisti di questa vicenda.

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