La recessione britannica non è finita

Dato molto deludente, quello del Pil britannico del terzo trimestre. La variazione congiunturale è pari a meno 0,4 per cento, che equivale a circa meno 1,6 per cento annualizzato (utilizzando il criterio americano di computo), a fronte di attese ben più ottimistiche, pari ad un più 0,2 per cento. E’ il sesto trimestre consecutivo di crescita negativa del Pil, evento mai verificatosi dall’inizio di questa serie storica, nel 1955. Se si pensa alla quantità di risorse fiscali e monetarie mobilitate per contrastare la crisi, e se si pensa al forte deprezzamento della sterlina, si ha la misura di quanto preoccupante sia il dato odierno.

Aumenta la probabilità che Bank of England già dal prossimo meeting, a novembre, possa (o meglio, debba) aumentare il plafond di easing quantitativo, attualmente fissato a 175 miliardi di sterline, destinato al riacquisto di titoli di stato. La speranza risiede nella correlazione estremamente bassa (solo 0,15) tra il primo dato di Pil e le revisioni successive. In altri termini, questa contrazione potrebbe trasformarsi in un aumento del Pil quando nelle stime saranno incorporati dati oggi non disponibili. Nei fatti, survey quali gli indici dei direttori acquisti di imprese manifatturiere, di servizi e delle costruzioni rappresentano previsori migliori del dato finale del Pil, ed indicano la fine della recessione proprio nel terzo trimestre. Pensate a cosa ci si deve aggrappare, oggigiorno. Di certo alcuni ministri italiani, in questo contesto di dati così volubili, uscirebbero pazzi.

Wait and see, dunque, ma il caso britannico resta sotto i riflettori, oltre che per la elevata criticità, anche per essere stato indicato da Paul Krugman, forse un po’ troppo frettolosamente, come un modello di ripresa keynesiana, basato su espansione fiscale e monetaria molto aggressive.

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