In nome del popolo sovrano contro le autorità di mercato? Un déjà vu statalista

di Mario Seminerio – Libertiamo

Al crescere della complessità e della varietà degli stati del mondo, la classe politica si trova a disagio nella capacità di risposta alle problematiche, intesa sia come efficacia ed efficienza nella elaborazione di politiche pubbliche, sia come comunicazione ai cittadini delle azioni intraprese e da intraprendere. Di fronte alla frustrazione rispetto all’incapacità a gestire situazioni complesse, è forte la tentazione di rifugiarsi nel populismo e nelle delegittimazione delle tecnostrutture. Il caso paradigmatico è quello della cultura di governo e della comunicazione espresse dal centrodestra italiano, da sempre incline ad additare alla pubblica esecrazione l’azione di agenzie di regolazione e di tecnostrutture che occasionalmente si trovino ad ostacolare l’adozione di misure ritenute necessarie almeno a lenire l’ansia di breve termine.

Nel recente passato è stato il caso della Banca Centrale Europea, vista erroneamente e semplicisticamente come tecnocrazia “irresponsabile”, nel senso di unaccountable, perché non investita da legittimazione elettorale. Più sottotraccia, ma con effetti non meno negativi sul rendimento del nostro sistema economico, vi è l’azione sulle authorities, attraverso manovre volte ad esempio a ridurne l’autonomia, finanziaria ed operativa. L’invocazione alla investitura popolare come fonte di ogni legittimazione appare come un formidabile riduttore di complessità, e tende a semplificare drammaticamente sia il sistema di pesi e contrappesi istituzionali (ove riferito, ad esempio, alla magistratura), sia ad estromettere le entità preposte alla gestione e co-gestione dell’economia dal lato tecnocratico.

Il fenomeno non è nuovo nelle democrazie occidentali (si pensi al tentativo di Ron Paul di demolire la Federal Reserve, senza neppure passare per una riforma delle sue attribuzioni), ma è in Italia nell’ultimo quindicennio, sotto i governi di centrodestra, che si sviluppano gli attacchi più forsennati agli istituti tecnocratici e “non eletti”. Limitandoci alla sfera economica, occorre premettere una triste quanto ineludibile verità: l’economia è in larga misura un dato, esterno ai governi nazionali. Ciò accade per effetto dell’operare di entità sovranazionali (il mercato stesso, nell’era della globalizzazione), che tendono a dettare alcune best practices a cui le entità nazionali devono uniformarsi, pena la marginalizzazione e la perdita di benessere nel lungo periodo.

Il fenomeno, si diceva, non è nuovo: nel 1981, appena eletto, François Mitterrand decise di liberare la Francia dal giogo delle compatibilità macroeconomiche globali, e di lanciare la famosa formula dell'”espansione in un solo paese”. Il risultato fu un disastroso deficit pubblico e delle partite correnti, il deprezzamento del franco e pressioni al rialzo sui tassi d’interesse, che soffocarono l’illusoria ripresa pseudo-keynesiana voluta dall’Eliseo. Oggi quel sistema di vincoli si ripresenta ancor più potente, per effetto della globalizzazione, che ha guidato la crescita economica negli scorsi anni. Da qui l’insofferenza dei governi verso alcuni vincoli esterni, quali la disciplina fiscale o il livello del cambio dell’euro.

Il centrodestra italiano si è da sempre distinto per gli attacchi alle tecnocrazie “non elette”, nel tentativo di trovare facili scorciatoie ai problemi strutturali del paese. E’ stato così nel periodo in cui esponenti di primo piano del centrodestra chiedevano a gran voce l’uscita dall’euro, memori degli anni ruggenti della lira, nell’oblio delle devastazioni che quella politica economica ha inferto nel lungo periodo al nostro tessuto produttivo. In parallelo alla richiesta veniva condotta, all’interno, una martellante campagna mediatica contro la “lontana Europa” e la sua burocrazia, con argomentazioni piuttosto grossolane e spesso fuori tema. Negli ultimi anni il registro è cambiato, anche per la manifesta impossibilità di cambiare in tal modo le regole del gioco, e si è passati al tentativo di manomettere le authorities, già del loro sufficientemente screditate per la scarsa capacità di evitare la cattura da parte dei regolati, e la porosità alle influenze politiche con cui hanno visto la luce nel nostro paese.

Quello che sfugge alla nostra classe politica è che le agenzie e le autorità tecnocratiche esistono per garantire l’aderenza di lungo termine a quelle che abbiamo definito le best practices internazionalmente riconosciute. Esse possono evolvere, ma su tempi ben più lunghi di quelli dettati dalle esigenze tattiche della maggioranza pro-tempore. Per molti aspetti, l’azione delle autorità e delle agenzie tecnocratiche rappresenta l’equivalente della tutela dei diritti di proprietà. Esiste anche una sanzione per le continue intromissioni governative nell’azione di tali tecnostrutture: l’inaridimento dei flussi di investimento diretto estero verso un paese che continua a cambiare in corsa le regole del gioco. Finché il potere politico italiano non capirà questo semplice ma fondamentale concetto, il nostro paese sarà sempre ai margini dei giochi globali, e perderà l’opportunità di crescere attirando capitali dall’estero.

Lasciare le agenzie non elette a presidio della “certezza del diritto”, rafforzandone la separatezza dal potere politico dovrebbe rappresentare priorità strategica del legislatore, che dovrebbe inoltre concentrarsi sulle riforme di struttura per consentire al paese di cogliere le opportunità di crescita che il quadro globale offre. Rifugiarsi nell’invocazione al “popolo sovrano” è pagante nel breve e brevissimo termine, perché tra le altre cose consente di costruirsi un capro espiatorio ed un “nemico esterno” all’azione governativa, un cospirazionismo che serve a raccogliere effimero consenso. Ma serve solo per sfiancare la capacità di successo (e fors’anche di sopravvivenza) di lungo periodo di un sistema sociale ed economico, in un orientamento al breve termine (gli anglosassoni lo chiamano short-termism, quasi ad indicarne una valenza ideologica), che sembra ormai congenito ad un paese come l’Italia, perennemente immerso in campagna elettorale.

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