Keynesismo virtuoso o illusorio?

Sul suo blog Presimetrics, Mike Kimel fornisce una definizione operativa “benevola” di keynesismo, quella in base alla quale la spesa pubblica, durante le recessioni, si sostituisce a quella privata attraverso il deficit, mentre durante le fasi espansive lo stimolo viene ritirato, rimborsando il debito con il conseguimento di un avanzo di bilancio pubblico.

In base a questa premessa, Kimel realizza un grafico a barre per identificare storicamente quello che viene definito “comportamento keynesiano”, quelle fasi del ciclo congiunturale in cui si verificano

  1. Spesa reale (cioè al netto dell’inflazione) del settore privato a nuovi massimi e coesistente con un surplus del settore pubblico;
  2. Spesa reale del settore privato inferiore ad un precedente massimo e coesistente con un deficit del settore pubblico.

Per contro, i “comportamenti non-keynesiani” sono, specularmente, quelli in cui in un ciclo economico si verificano

  1. Spesa reale del settore privato ad un nuovo massimo e coesistente con deficit del settore pubblico;
  2. Spesa reale del settore privato inferiore ad un precedente massimo e coesistente con surplus del settore pubblico.

Con queste semplici definizioni operative è possibile produrre un grafico a barre, visualizzato qui sotto. Nello specifico, le barre grigie sono quelle di comportamento keynesiano, quelle turchesi riproducono un comportamento non-keynesiano. Dal grafico si evince che, fino alla fine degli anni Sessanta-inizio anni Settanta il governo degli Stati Uniti ha aderito a questa ortodossia keynesiana, e tali periodi hanno coinciso con una crescita relativamente rapida. Dopo quell’epoca, l’abbandono dell’ortodossia keynesiana ha coinciso con un progressivo appiattimento della crescita.

Per chi si diletta di polemica politica spicciola e quotidiana, l’ultimo periodo “keynesiano” esteso, nella storia degli Stati Uniti, ha coinciso all’incirca col secondo mandato di Bill Clinton, nel quale non era infrequente, nelle fasi di picco, vedere l’economia crescere a tassi congiunturali annualizzati del 5-7 per cento ed il bilancio federale era in surplus, dopo aver irripidito la curva delle aliquote dell’imposta personale sul reddito. Per trascinamento, quel periodo è durato all’incirca fino al 2002-2003, quando il bilancio federale è stato mandato in rosso (con i tagli d’imposta di George W.Bush) per rispondere allo shock dell’11 settembre, e la successiva ripresa è stata alimentata dalla politica di tassi reali nulli o negativi da parte della Fed, senza che la politica fiscale esercitasse un ruolo frenante compensativo. Del resto, con un’inflazione “tradizionale” moderata come era quella dell’epoca, attuare una stretta monetaria e fiscale appariva quasi una bestemmia. Ma uno sguardo fuori dal paniere dell’inflazione (sulle case, ad esempio) avrebbe fatto suonare il campanello d’allarme. Sappiamo come è andata, vero Mister Greenspan? Ma non divaghiamo.

Premesso che il modello di Kimel è necessariamente stilizzato (anche troppo), che correlazione non implica causalità e che le variabili da considerare non sono solo quelle fiscali (si pensi alle discontinuità tecnologiche), resta il punto dell’utilizzo in chiave anticiclica del bilancio del settore pubblico: ricorso al debito per compensare recessioni, rimborsato da surplus conseguiti nelle fasi di espansione. Ammesso e non concesso di conseguire moltiplicatori fiscali (sia di spesa pubblica che di tassazione) sufficientemente elevati.

Il vero problema del deficit spending è l’aumento indotto delle dimensioni delle burocrazie pubbliche, che tendono a resistere ai ridimensionamenti e spesso anche al venir meno delle funzioni ad esse delegate, inventandosene o catturandone altre, aumentando drasticamente l’inerzia del sistema nei periodi in cui dovrebbe essere necessario attuare strette fiscali. Forse per questo motivo anche un approccio keynesiano “ortodosso”, come definito da Kimel, è destinato al fallimento nel lungo periodo. Forse per leggere e capire il mondo serve più Public Choice.

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