Sul suo blog, Antonio Martino risponde ad un editoriale di Angelo Panebianco, pubblicato giorni addietro sul Corriere, nel quale il politologo sosteneva, con una robusta dose di buonsenso e (purtroppo per noi) inconfutabili evidenze storiche, l’incapacità congenita del nostro paese a riuscire a gestirsi in assenza di un qualsivoglia vincolo esterno. Panebianco giunge a paventare rischi di involuzioni antidemocratiche se l’Italia dovesse tornare alla lira, cioè uscire dall’altamente imperfetto sistema di vincoli imposti dalla moneta unica, ferma restando l’esigenza di andare verso l’unione politica. Martino, tirato in causa con Paolo Savona quale sostenitore del ritorno alla lira ed al periodo delle svalutazioni competitive, si adonta non poco.
Dopo una pelosa e stucchevole attestazione di stima ed amicizia, Martino richiama Panebianco a rientrare nei ranghi delle proprie competenze accademiche. Il punto, però, è che Martino non prova neppure a confutare la lettura di Panebianco sulla necessità che il paese abbia un morso esterno (anzi, l’assume esplicitamente per data), perché semplicemente questa considerazione non è confutabile, tanto è storicamente verificata. Segue l’abituale e stantia lamentazione sulla natura intrinsecamente antidemocratica della moneta unica:
«Draghi non è a capo della Bce per volontà del popolo sovrano, ma per accordi fra alcuni politici di paesi che ritengono di avere diritto di contare più degli altri. Il capo della Bce non risponde che a Dio del suo operato, è, per usare un termine inglese di difficile traduzione, totalmente unaccountable, al di sopra di qualsiasi controllo o valutazione sulle sue scelte»
Questa è una evidente forzatura: forse che il capo di Bankitalia è a quel posto “per volontà del popolo sovrano”? E da quando, poi, i capi delle tecnostrutture devono essere eletti a suffragio universale? La verità è che la Bce è una struttura federale, nel modo e con i limiti in cui può esserlo una tecnostruttura in questa Europa altamente imperfetta. Quanto agli organi decisionali della Bce, basta leggersi Wikipedia, se si ha poco tempo:
«I membri dell’Executive Board sono nominati per un unico termine di otto anni, e scelti fra persone di riconosciuta reputazione ed esperienza professionale in materie monetarie o bancarie, di comune accordo con i governi degli stati membri a livello di capi di Stato o di governo, su raccomandazione del Consiglio, sentito il Parlamento europeo ed il Consiglio dei Governatori della Bce»
Non è tutto: riguardo indipendenza ed accountability,
«La Bce è tenuta a pubblicare dei rapporti sulle proprie attività e deve inviare il proprio bilancio annuale a Parlamento europeo, Commissione europea, Consiglio europeo e Consiglio dell’Unione europea. Il Parlamento europeo pone delle interrogazioni ed in seguito emette la propria opinione sui candidati all’Executive Board»
E’ un po’ più chiaro, ora? Si tratta di nomine che hanno una legittimazione democratica, tipica di tutte le procedure di nomina di organismi tecnocratici. Se e quando la Ue diverrà una federazione o confederazione, è auspicabile che queste procedure vengano riviste in senso di attribuire maggior rilevanza ad un Parlamento europeo reso più operativo e meno declamatorio, ma in tutta franchezza l’obiezione di Martino è inconsistente.
E peraltro, davvero Martino vorrebbe una banca centrale eletta a suffragio universale diretto? Ne dubitiamo, perché se così fosse, quale sarebbe l’utilità di una simile banca? Forse stampare davvero moneta non in una fase di emergenza acutissima come l’attuale ma, con tutta probabilità (vista l’assenza di vincolo esterno), per agevolare gli sforamenti di deficit da parte del governo di turno, come già accaduto nella storia d’Italia. In altri termini, Martino dovrebbe spiegarci se vede questo (peraltro inesistente) vulnus democratico europeo come meno nocivo di una banca centrale assoggettata al “controllo democratico” usata per finanziare il deficit anche in condizioni ordinarie. Del resto, non era Guido Carli che diceva (vedasi anche qui, pagina 6) che l’eventuale rifiuto di finanziare lo stato sarebbe equivalso ad un “atto sedizioso”?
Irrisolto questo punto e le motivazioni sottostanti, Martino se la prende con i tedeschi (e ci può stare, soprattutto l’aggettivo “forsennato”), ma la vede da un unico versante:
«Il forsennato diktat tedesco di pareggiare il bilancio a questi livelli di spesa pubblica sta spingendo tutti i paesi dell’eurozona ad accrescere le imposte nel tentativo (vano) di raggiungere le spese. Crede davvero Panebianco che portare la pressione tributaria al 52% del pil farebbe bene all’economia italiana? Crede che renderebbe più democratico e unito il nostro Paese?»
Ma scusi, professor Martino, dove sta scritto che il pareggio di bilancio debba necessariamente realizzarsi attraverso aumento di entrate e non per taglio di spese? Certo non nel Fiscal Compact, che nulla dice al riguardo. Piuttosto, il problema sta proprio in questo, come abbiamo scritto giorni addietro: a quale livello di equilibrio si collocherà il rapporto spesa-Pil e, conseguentemente, tasse-Pil, di una unione federale europea? E comunque, perché Martino non si chiede i motivi di questa prevalenza di aggiustamento dal versante delle imposte e non del taglio di spesa? Non lo sfiora il dubbio che la spesa sia pressoché intangibile proprio in virtù della “democraticità” del processo decisionale, con le feroci resistenze delle categorie interessate dai tagli, che riescono sempre e comunque a trovare decisiva rappresentanza parlamentare, il che spinge invariabilmente verso l’aumento d’imposte come esito “necessario”?
Ma soprattutto, cosa garantirebbe Martino circa il fatto che un’Italietta tornata ai fasti delle svalutazioni competitive e con una banca centrale assoggettata al controllo “democratico” non finirebbe col monetizzare il deficit e fare esplodere la spesa? A Martino la storia d’Italia non è bastata? E non si rende conto che, argomentando in questo modo, sembra più simile a Paolo Ferrero che a Milton Friedman?
La verità è che la strada per cui battersi è quella di un percorso federale verso maggiore integrazione politica in Europa, tale da poter conferire più democraticità al processo decisionale, non certo quella di ripercorrere a ritroso un cammino vizioso. Ma Martino reputa la prima strada impercorribile, con l’ipse dixit di Martin Feldstein (l’eroico economista conservatore che insegna ad Harvard, “tana del sinistrume chic più disgustoso d’America”).
E comunque, per farla breve, ricordate che stiamo parlando dell’uomo che, negli ultimi vent’anni ha avallato senza batter ciglio tutti gli sfondamenti di spesa e gli aumenti d’imposta che il suo leader ha inflitto al paese. La coerenza non è di questo mondo. Il problema vero è che Martino si sottopone di buon grado a queste soverchianti dissonanze cognitive pur di non ammettere che il suo Caro Leader ha miserabilmente fallito, nell’ultimo ventennio in politica e nell’ultimo decennio al governo. La cosa più triste è che, quando Berlusconi fiuterà l’aria e capirà che gli italiani non intendono uscire dall’euro, Martino tornerà ai silenzi ed alle omissioni della sua imbarazzante fedeltà.
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