Fabbrica Italia era un piano politico, prima che industriale

Si, lo sappiamo, i piani industriali sono per definizione caratterizzati da elevata incertezza di esecuzione, motivo per cui analizzare oggi un piano industriale annunciato per la prima volta tre anni fa ha poco senso, soprattutto alla luce degli sconvolgimenti in atto in Europa. Eppure.

Eppure, potremmo incasellare questo esito in una sequenza interpretativa ad alto tasso di verosimiglianza. Ad esempio:

  1. Sergio Marchionne è consapevole da sempre, e mai ne ha fatto mistero, che in Europa esiste una pesantissima sovracapacità produttiva nel settore auto e che di conseguenza, a meno di un boom (assai poco probabile anche prima dell’inizio della crisi), si sarebbe giunti al redde rationem;
  2. Consapevole di questa enorme Spada di Damocle ma essendo persona assai ambiziosa e “visionaria”, Marchionne si è inventato Fabbrica Italia come espediente retorico-ideologico o, se volete, come strategia di comunicazione politica, e non necessariamente industriale. Nel senso che si annuncia l”‘evento epocale” ma non se ne comunicano i dettagli operativi, neppure quelli di larga massima, per avere un enorme ballon d’essai col quale disarticolare il sistema della rappresentanza. Non solo quella nei luoghi di lavoro, ma anche quella interna al sempre più traballante e sclerotizzato sindacato degli imprenditori;
  3. Si coagula attorno a questo progetto “ideologico” una parte di opinione pubblica, quella più insofferente alla mitologia del pansindacalismo (che non esiste più, ma spesso questo settore di opinione pubblica non lo sa, avendo scarsa conoscenza effettiva dello stato delle relazioni industriali) ed intimamente convinta che la modernizzazione produttiva debba passare necessariamente per la sconfitta ideologica del “nemico”, e nel frattempo si scuote dalle fondamenta Confindustria, spesso così incendiaria nei convegni e così conservatrice negli accordi contrattuali. Marchionne, in questo modo, cerca di passare alla storia come una sorta di Thatcher italiano, l’uomo che ha cambiato il volto delle relazioni industriali, ma in cuor suo sa perfettamente quale sarà l’esito ultimo: il disimpegno dall’Italia;
  4. Nel frattempo, si utilizza al massimo grado il leverage che deriva dall’aver acquisito il terzo marchio automobilistico statunitense al punto di minimo (un default con ristrutturazione e ponti d’oro da parte dell’Amministrazione di Washington e dal sindacato), per puntare decisamente a crearsi una exit strategy da un paese morente;
  5. Al verificarsi del worst case scenario (crisi profonda di settore e avvio ineluttabile del processo di downsizing) si allargano le braccia e si dichiara che “Fabbrica Italia” è morta senza mai aver visto la luce.

Sia chiaro: Fiat ha tutte le ragioni industriali per procedere ad un ridimensionamento, ieri (Termini Imerese) come oggi e domani. Allo stesso modo in cui è difficile non osservare che, Chrysler a parte, la società non appare così strategicamente tonica come invece viene presentata da una certa pubblicistica acritica, che ha scambiato Marchionne per l’uomo che, pur costruendo auto, farà arrivare i treni in orario. Alfa Romeo resta un’incompiuta, per la quale (a intervalli regolari) si vaticinano epocali conquiste dei mercati di oltreoceano e dell’Estremo Oriente; la penetrazione in Cina resta nulla, in Russia la situazione appare molto simile e la quota di mercato europea è in continuo ripiegamento nella perdurante assenza di nuovi modelli, circostanza che differenzia senza se e senza ma il costruttore italiano dai propri concorrenti. Difficile incolpare anche di questo le riottose (o presunte tali) maestranze.

Che fare, quindi? Poco e nulla, al momento. Sul più lungo periodo il governo e la politica potrebbero lavorare alla creazione di condizioni favorevoli per consentire lo stabilimento in Italia anche di altri costruttori ma sarà terribilmente difficile, visto che l’habitat economico, legale ed istituzionale del paese paiono ostili a simili insediamenti. A meno di attendere l’inevitabile impoverimento del paese, che porterà con sé anche un aumento di appetibilità all’insediamento industriale, causa fame (non necessariamente in senso metaforico). Ma solo se nel frattempo saremo riusciti a sfuggire al caos e ad una disperata anarchia.

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