Ogni quattro anni, l’Economist sonda i maggiori economisti statunitensi in vista delle elezioni presidenziali. In questa occasione è stato chiesto anche per quale motivo la ripresa è così lenta, scegliendo tra sei fattori esplicativi. Le risposte hanno elevata dispersione e bias “ideologici” che confermano che tentare di capire qualcosa di questa infinita post crisi affidandosi agli economisti è soprattutto un atto di fede. Politica, nella fattispecie.
Come si nota dagli istogrammi delle risposte degli economisti (suddivisi tra “macro”, quelli appartenenti al National Bureau of Economic Research, “micro”, quelli della National Association of Business Economists, e indipendenti), una qualche omogeneità di consenso pare cogliersi intorno alla spiegazione della natura della crisi (finanziaria) come causa importante della lentezza della ripresa (primo grafico per vista generale e secondo per livello di criticità del fattore). La divergenza più eclatante è quella relativa all’incertezza sul futuro corso di policy, che piace soprattutto agli economisti d’impresa. Anche gli shock provenienti dal resto del mondo hanno un ruolo importante in termini di spiegazione del fenomeno, mentre consenso trasversale emerge anche sulla non esistenza di una politica monetaria troppo stretta (difficile essere in disaccordo, almeno su questo).
Le due aree in cui si evidenzia maggiore dispersione sono la politica fiscale troppo stretta e l’incertezza di policy. Ed è qui che compare il bias “ideologico”. Per cominciare, il campione sondato, si definisce per oltre il 40 per cento come Democratico, mentre i Repubblicani sono meno del 10 per cento e gli indipendenti circa il 50 per cento. E con tutta probabilità non è un caso che, incrociando le risposte, chi ritiene che tra le cause della lentezza della ripresa vi sia la politica fiscale troppo stretta consideri anche Barack Obama come dotato di migliore capacità di gestire l’economia mentre chi dà la colpa dello stallo all’incertezza di policy pensa che il più idoneo a guidare l’economia americana sia Mitt Romney. La tipologia di “spiegazione” del problema appare correlata in modo significativo al profilo del candidato ed alla sua posizione di politica economica.
Non sono rivelazioni sconvolgenti ma confermano che le “diagnosi” degli economisti vanno trattate con sano scetticismo, al netto di quelle che appaiono come evidenze difficilmente confutabili. Ma risalire dalle evidenze (i “sintomi”) alla diagnosi ed alla relativa “terapia” è il passaggio in cui si rischia maggiormente di disorientare il paziente. E a volte anche di perderlo.