Sul Financial Times, un editoriale moderatamente panglossiano di Wolfgang Schaeuble tenta di trasmettere il messaggio che, alla fine, il duro lavoro premia i riformatori. Abbiamo il fulgido esempio della Germania, argomenta Schaeuble, non date retta ai profeti di sventura. Può essere, ma la narrativa di Schaeuble fa acqua sotto molti aspetti.
“Il lavoro di riparazione, fiscale e strutturale, sta pagando, gettando le fondamenta per una crescita sostenibile”, afferma Schaeuble. L’esempio, come sempre, è la Germania, ex “malato d’Europa”. Molto interessante il fatto che Schaeuble sostenga che l’adozione dell’euro sia “avvenuta ad altissimo tasso di cambio” per i tedeschi: di solito queste lamentazioni sono tipiche degli italiani. Per reagire al crollo degli investimenti e ad una disoccupazione che aveva raggiunto i 5 milioni di persone, il paese ha avuto un momento di “coscienza collettiva”, ed ha rotto gli indugi. E non solo quelli, come sappiamo.
«Una prima ondata di aggiustamenti, iniziata nel 2003, si è focalizzata sul rafforzamento degli incentivi all’occupazione, la riorganizzazione del settore pubblico e della sicurezza sociale e l’aumento delle imposte sul consumo. A livello microeconomico, aziende e sindacati lavorarono insieme per rendere il lavoro più flessibile. Una seconda ondata di restrizioni di spesa e riforme seguì nel momento in cui la crisi finanziaria iniziò a rientrare»
Schaeuble ricorda poi che la quota di investimento tedesco in ricerca e sviluppo, pubblica e privata, al 2,8% del Pil, è inferiore solo a Svezia e Danimarca, in Ue. Secondo il ministro delle Finanze tedesco, inoltre, la disoccupazione giovanile tedesca, all’8%, è frutto in parte del raccordo tra imprese e sistema formativo.
Schaeuble compie poi alcune precisazioni, ad uso degli scettici sulla ricetta vincente. Intanto, che non è vero che la Germania prosperi solo sull’export. O meglio, che il recupero di competitività del paese è il primo passo per produrre una crescita diffusa a tutte le componenti dell’economia. Dopo il rilancio sulle esportazioni arriva il premio, dice Schaeuble:
«Più di 2 milioni di tedeschi che sino a quel momento languivano nella disoccupazione hanno trovato lavoro – perlopiù lavori buoni e sicuri con paga decente e generosi benefit. Con il mercato del lavoro che diventa più tirato, salari e consumi stanno ora crescendo in modo robusto. Oggi la domanda domestica è il principale motore della crescita in Germania»
Da dove iniziare, tralasciando i controversi minijob? In primo luogo che nel 2003, come ormai sanno anche i sassi, la Germania si liberò del Patto di Stabilità e Crescita, sforò ampiamente il deficit-Pil per sostenere gli interventi di welfare contestuali alla ristrutturazione del modello economico. Non sono dettagli: è vero che la Germania aveva la capacità fiscale per sostenere la riconversione, e che se la è creata sforando i parametri di deficit, ma questo dettaglio tende ad essere ignorato dagli stessi tedeschi. Peraltro, Schaeuble e Merkel giocano reciprocamente di sponda visto che la Cancelliera ha detto, poche settimane addietro, che una delle cause dei problemi europei è stata proprio la rottura della disciplina fiscale europea da parte della Germania e dell’allora cancelliere Gerhard Schroeder. Son politici, recitano a soggetto e soffrono di amnesie.
Poi si potrebbe ricordare che la Germania si è ristrutturata potendo contare su condizioni dell’economia globale tutt’altro che depresse, a differenza della situazione attuale, e che il suo recupero di competitività in Eurozona è stato anche figlio dell’euro, nel senso della fallace scomparsa del rischio di credito, che aveva portato i mercati a credere che il rischio-Grecia fosse identico al rischio-Germania. Certo, come no. Ma Schaeuble vola ad alta quota, e da lassù riesce a non scorgere questo dettaglio. Vede invece la causa della perdita di competitività degli altri paesi dell’Eurozona nei flussi di capitale e nella illusoria scomparsa del rischio di credito sovrano in una unione monetaria ma non politico-fiscale. Praticamente un acrobata, ammirate l’incipit:
«Ciò che è accaduto in Eurozona a inizio decennio è solo contestualmente differente. Nella fase del “boom”, molti paesi membri hanno permesso al lavoro di diventare costoso, ed alla loro quota di commercio mondiale di restringersi. Quando è arrivata la crisi, gli impieghi sono scomparsi e le finanze pubbliche si sono deteriorate»
Questa è la descrizione di una fase di perdita di competitività caratteristica degli afflussi di capitale, e di una crisi indotta dal successivo sudden stop. Forse sarebbe utile che Schaeuble quantificasse il beneficio ricavato dalla Germania in termini di esportazioni verso paesi inondati di capitali, in boom di credito e di conseguenza in perdita costante di competitività. Si accorgerebbe che la ristrutturazione tedesca di inizio anni Duemila e la crisi dell’Eurozona di inizio decennio successivo sono due animali completamente differenti, contestualmente parlando.
Come che sia, ora siamo in piena reazione alla crisi, sostiene Schaeuble, per volere dei popoli europei espresso dai rispettivi governanti. E la cura funziona, perché nel mondo e nella vita ci sono alcune costanti universali. Tutto è bene quel che finisce bene, si direbbe:
«In soli tre anni, i deficit pubblici in Europa si sono dimezzati, i costi del lavoro per unità di prodotto e la competitività si stanno rapidamente aggiustando, i bilanci delle banche sono in via di riparazione ed i deficit delle partite correnti stanno scomparendo. Nel secondo trimestre la recessione in Eurozona è giunta al termine»
Andiamo con ordine: vero quel che Schaeuble dice dei deficit pubblici, ma tace dell’andamento del rapporto debito-Pil, che sta portando alcuni paesi (tra cui il nostro) sul ciglio della insostenibilità, a meno di una ripartenza della crescita che nessuno vede né vedrà ancora per molto tempo. Il recupero di competitività forse è vero per la Spagna, di certo non per Italia e Francia. I bilanci delle banche sono in via di riparazione tramite la generazione di un terrificante credit crunch che trasforma la recessione in depressione. I deficit delle partite correnti stanno scomparendo in modo non trascurabile per effetto della distruzione di domanda interna, oltre che per ripresa delle esportazioni.
No, caro ministro Schaeuble, è cosa buona e giusta non profetizzare sciagure e lavorare per le riforme, ma far passare la fiaba secondo cui la crisi “Germania 2003” è identica alla crisi “Eurozona 2010-2013” è un perfetto nonsenso. Poi, i tedeschi sanno che altri aiuti serviranno alla Grecia ed al Portogallo (forse anche all’Irlanda, al momento del rientro sui mercati il prossimo anno), e che in molti paesi se la traiettoria del debito-Pil non verrà piegata con crescita vera sarà fatale giungere a forme di ristrutturazione del debito, cioè di default.
Aspettiamo i tedeschi dopo le loro elezioni del 22 settembre. Per ora, prendiamo atto che la storia la scrivono i vincitori. Nel caso dell’Eurozona, però, non siamo affatto certi che la Germania sia il vincitore. Né che esista un vincitore, a dirla tutta.
Aggiornamento – Poiché in questo post c’è una omissione inaccettabile (quella relativa alla situazione della disoccupazione in Eurozona), se promettete di guardare la luna e non il dito, la lettura complementare consigliata sul tema è Paul Krugman.