(Questo è un post apparentemente e fintamente tecnico. In realtà è un post essenzialmente filosofico, che punta a mostrare quanto possa essere vendicativa l’economia, verso chi finge di ignorarne le “leggi”)
Prosegue la strana vicenda della Abenomics, il tentativo, da parte del premier giapponese Shinzo Abe, ti dare una scossa all’economia giapponese, e farla uscire definitivamente dalla deflazione che la attanaglia da molti anni. Quello che sta emergendo sempre più chiaramente, col trascorrere del tempo, è che la Abenomics rischia di essere l’ultimo chiodo alla bara del paese, oltre che (soprattutto) un gioco di puro illusionismo, e neppure di qualità particolarmente eccelsa.
Oggi, ad esempio, è stato pubblicato il dato di inflazione nazionale di agosto. L’indice dei prezzi al consumo su base nazionale cresce dello 0,9% tendenziale, oltre le stime di consenso, poste a 0,8%. Per l’area di Tokyo tale dato è a più 0,5%. E fin qui, nulla da dire. Tuttavia, esaminando altre misure di inflazione, i risultati sono differenti, e non esattamente rassicuranti. Portate pazienza, per i numeri che seguono: il senso emergerà trionfante, alla fine del post.
La grandezza core di inflazione usata in Giappone è quella che rimuove dall’indice dei prezzi al consumo le voci relative ad energia ed alimentari freschi. Gli indici di inflazione core servono per identificare se le pressioni inflazionistiche o deflazionistiche stanno mettendo radici nell’economia, al netto di componenti notoriamente volatili quali alimentari e carburanti-combustibili. Ebbene, tale dato core, riferito all’area di Tokyo, mostra l’inflazione in decelerazione, dallo 0,4% tendenziale di agosto allo 0,2% di settembre. Se poi si prende come misura core quella che si usa nel resto del mondo, cioè si toglie dal paniere energia e tutti gli alimentari (non solo quelli freschi), si ottiene che il dato tendenziale nazionale è pari a meno 0,1% in agosto, mentre per Tokyo in settembre (la capitale ha sempre dati più recenti di un mese rispetto al resto del paese, per tempi necessari a raccogliere i dati in tutte le aree) si ottiene ancora una deflazione dello 0,3%, tendenziale. Ora, è vero che pochi mesi addietro simili grandezze mostravano una deflazione dell’1 per cento, ma occorre sapere anche che la tendenza alla riduzione della deflazione appare essersi interrotta da un paio di mesi.
Quale è il punto? Che questa reflazione è frutto del violento deprezzamento dello yen, che ha causato un forte aumento dei prezzi all’importazione, soprattutto dell’energia, visto che il Giappone ha praticamente gettato la spugna circa la possibilità di riaccendere i propri reattori nucleari (anzi, giorni addietro hanno pure spento l’ultimo in attività, ufficialmente per manutenzione), e quindi si trova costretto a forti importazioni energetiche.
Ma che avviene, oggi? Una cosa piuttosto banale: che entra in gioco una cosa chiamata potere d’acquisto. Una variabile reale, che si misura confrontando la crescita dell’indice generale dei prezzi con quella dei salari e degli stipendi. Sorpresa, il primo cresce più dei secondi. Il primo è ovviamente l’indice generale perché la gente mette in tavola gli alimentari, freschi e no, e fa benzina per spostarsi, oltre a spendere per riscaldare la propria abitazione. Ebbene, con uno strabiliante gioco d’artificio, i giapponesi hanno scoperto che stanno perdendo potere d’acquisto, visto che l’indice delle retribuzioni cash è cresciuto in luglio di solo lo 0,4% tendenziale, in frenata dallo 0,6% di giugno. Non solo: al netto di bonus e straordinari, i salari giapponesi cash sono addirittura calati in luglio dello 0,4% tendenziale, per il quattordicesimo mese di fila.
Che accade, quando la gente perde potere d’acquisto? Di solito che non ne è troppo felice. La perdita di potere d’acquisto indebolisce l’economia, e ciò accade persino in un paese patriottico come il Giappone, come mostrano le flessioni ormai costanti degli indici di fiducia di consumatori e commercianti. E che ti fa il buon Abe, quindi? Convoca i rappresentanti delle imprese e “suggerisce” di aumentare i salari, per stimolare la fuoriuscita dalla deflazione. Solo che pare che il Giappone, per quanto patriottico, non sia ancora un paese ad economia centralizzata e collettivistica, e che gli aumenti di retribuzioni di solito siano il risultato della crescita economica, non la sua premessa, come invece volevano i Sessantottini ed i figli del ’77, da noi ed altrove, quando teorizzavano che il salario fosse la variabile indipendente.
Nel caso di specie, poi, quel mattacchione di Abe sta puntando piuttosto scopertamente a non erodere il potere d’acquisto dei consumatori. Ma l’economia è la scienza della coperta corta: se rimborso i lavoratori per la loro perdita di potere d’acquisto, rendo tristi le imprese, aumentandone i costi. Costi che peraltro erano già saliti con la fiammata inflazionistica che Abe e la Bank of Japan hanno felicemente indotto, giocando con alcool e fiammiferi. Pensate che accadrebbe al morale dei consumatori giapponesi se, a questa inflazione da deprezzamento dello yen, si aggiungesse l’aumento dell’Iva, previsto dal prossimo anno fiscale giapponese, cioè dal primo aprile, scherzo di cattivo gusto.
A che serve l’aumento Iva? A risanare i conti pubblici sommandosi, nelle intenzioni di Abe & Co., all’aumento di gettito spontaneamente indotto dalla ripresa del paese. E se invece non ci fosse nessuna ripresa e si scoprisse che l’aumento Iva serve solo a produrre inflazione “cattiva”? Allora, niente paura, dicono dal governo di Tokyo; faremo una bella manovra di stimolo fiscale, e passa la paura. Ma come, aumentate l’Iva per contribuire a ridurre il deficit, e poi ve ne uscite con nuovo deficit da aumento di spesa? Come si dice quisquilie, in giapponese?
E non finisce qui: la Abenomics consta di tre famose “frecce”: quella fiscale (stimolo), quella monetaria (esplosione della base monetaria, al limite -ed oltre- della monetizzazione del deficit pubblico), e riforme di struttura, quelle dal lato dell’offerta, molto liberiste ed anglosassoni. Solo che queste ultime, che pesterebbero i piedi di ampia parte dell’elettorato del partito liberaldemocratico, ancora non si vedono. E peraltro, come ogni buona riforma supply side, l’effetto di breve periodo sarebbe un aumento di disoccupazione ed un aumento di produttività che congiurerebbero, sempre nel breve termine, per far ricomparire la deflazione.
Che dire, quindi? Che abbiamo la percezione, già ribadita in passato, che il governo giapponese stia scherzando. Solo che lo sta facendo col fuoco. E alla fine, anche tutti i tenerissimi italiani che hanno visto nel lifestyle “stampa & spendi” la soluzione del problema, potrebbero cadere dal letto.