Oggi i giornali italiani tracimano di editoriali e commenti, per lo più compiaciuti quando non propriamente estatici, sull’operazione di minority buyout (ché di quello si tratta) di Fiat su Chrysler. Operazione attesa da tempo, come naturale sbocco di una acquisizione nata sulle ceneri di una crisi epocale e di un fallimento non meno epocale, con intervento salvifico dei soldi pubblici (quelli dello Zio Sam). C’è una qualche “morale” anche per noi piccoli italiani, da questa storia? Forse, ma non nei termini che leggiamo sulla esausta stampa di casa nostra.
Dopo l’operazione, Marchionne si ritrova con un gruppo globale (il settimo al mondo) che deve dimostrare di essere realmente globale, in termini di penetrazione su mercati come quello asiatico, e di volume di risorse investite in ricerca e sviluppo, che al momento non appare esattamente a livelli tedeschi. Si tratta anche di un gruppo con un livello di debito piuttosto elevato, dell’ordine di oltre 14 miliardi, che sono quattro volte l’utile operativo di gruppo per il 2013. Ora la nuova entità potrà usare sinergie finanziarie in termini di costo del debito e di accesso ai mercati, e l’indebitamento potrà essere abbattuto grazie alla quotazione di borsa, prevista per il prossimo anno.
Nel complesso un’operazione attesa ma conclusa meglio del previsto, per i minori costi a carico della società, che evita una problematica quotazione immediata e che per pagare il fondo sanitario dei metalmeccanici statunitensi userà la disponibilità cash di Chrysler e Fiat (nota per i nostri editorialisti: non è una magia né un esempio di genio: è una prassi possibile e prevista, quando si fa un buyout); cambierà la governance di gruppo, probabilmente sposterà il baricentro a Detroit, eccetera. Per noi italiani che cambia? Forse la possibilità di saturare e sviluppare capacità produttiva degli impianti italiani, dopo opportuno retooling (già in atto, peraltro), su nuovi modelli globali.
Ma non bisogna dimenticare che Fiat resta l’anello debole, operando in un paese in declino ed in profonda crisi, oltre ad avere un portfolio di modelli che ha lo stesso problema dei francesi: bassi margini. Quindi il futuro italiano di Fiat dipenderà da molte variabili, non tutte controllabili da Marchionne, sempre ammesso che il nuovo gruppo riesca effettivamente a diventare una world company. A quel punto, Marchionne sceglierà quali impianti privilegiare per la produzione dei nuovi modelli. Conterà la struttura dei costi di impianto, le relazioni industriali ed il sistema-paese. L’Italia potrebbe diventare un centro di eccellenza per progettazione e produzione globale oppure un hub-cacciavite di stile spagnolo.
In parte ciò dipenderà dall’evoluzione del contesto italiano, a cui Marchionne ora potrà guardare in modo relativamente più distaccato. Per ora non c’è esattamente una “lezione” di Fiat all’Italia. Fiat era e resta strategicamente debole in Europa, e questo dato non pare essere destinato a cambiare nel breve-medio termine. Come ha scritto non il manifesto ma il Financial Times, ora il nuovo gruppo dovrà soprattutto dimostrare di saper fare auto, e non limitarsi a mettere il logo Fiat su auto Chrysler e viceversa. Che Marchionne fosse un eccellente dealmaker ed un abile gestore finanziario lo sapevamo da tempo. Ora dovrà dimostrare soprattutto di essere un carmaker. La parte “facile” del suo percorso è terminata a Capodanno, ora inizia quella difficile.
Ma soprattutto, sarebbe utile soffermarsi a pensare che Chrysler è stata salvata con soldi pubblici, quelli del contribuente americano, in un momento in cui in molti, persino su giornali di casa nostra che vivono di sussidi pubblici, invocavano che “il mercato” facesse il proprio corso, eliminando l’eccesso di capacità produttiva del settore auto. E’ certamente vero che si è trattato di un intervento molto pesante, in termini di cura dimagrante imposta al costruttore ed ai suoi dipendenti e stakeholders, ma sempre di soldi pubblici si è trattato. Molto su cui riflettere, come forse si intuisce. Come sempre, est modus in rebus, e questa vicenda ci insegna che occorre distinguere tra breve e lungo periodo, che non tutti gli interventi pubblici sono creati uguali e, soprattutto, che serve un approccio laico alla complessità del mondo. Quello che a noi parolai italiani, tutti contrada e conventicola, manca da sempre.