Agenti ostruenti interni

Oggi, sul Sole, c’è un editoriale del professor Roberto Perotti che si inscrive nella famosa ricerca (del tempo perduto) di fondi per tagliare il cuneo fiscale. E’ una “proposta” provocatoria che tuttavia induce riflessioni sulla profonda disfunzionalità del nostro paese, e tocca in modo tangenziale anche alcune forme di vittimismo che caratterizzano il nostro modello culturale dominante.

Ecco la sintesi del pensiero di Perotti:

«Nel 2012 l’Italia ha pagato 16 miliardi alla Unione europea e ne ha ricevuti 11, in maggioranza fondi per la coesione e per l’agricoltura. Non c’è niente di male in questo: in passato l’Italia è stata beneficiaria netta, ora i fondi affluiscono soprattutto ai nuovi entrati, come la Polonia. Il problema è che molti dei soldi che riceviamo dalla Ue non servono a niente, anzi sono dannosi; faremmo molto meglio a rinunziarvi e chiedere uno sconto equivalente sui contributi che versiamo alla Ue. Potremmo usare questi risparmi per ridurre il cuneo fiscale di almeno 5-6 miliardi all’anno»

Siamo creditori netti al bilancio comunitario, ma l’efficienza di spesa dei contributi europei da parte delle nostre amministrazioni è ridicola. Cosa di cui avevamo già il robusto sospetto. Perché oltre ad essere “furbi”, praticamente i migliori quando c’è da segare il ramo su cui siamo seduti, abbiamo anche un processo decisionale molto strutturato, diciamo:

«Si comincia con le migliaia di pagine di piani nazionali e regionali, e poi di sottopiani per ogni obiettivo: questa volta la Ue ha deciso che saranno tredici. Non che questi piani siano necessari, perché un qualunque assessore regionale un po’ capace può far passare qualsiasi iniziativa sotto l’etichetta di “innovazione e competitività” oppure “occupazione”. Questo spiega le migliaia di bandi, programmi, iniziative, corsi di formazione spesso per pochi milioni o poche centinaia di migliaia di euro; e le decine di migliaia di beneficiari, dal parrucchiere che “forma” una estetista al cinema che prende sovvenzioni per digitalizzarsi. In tutto questo vengono coinvolti parecchi ministeri (almeno Economia, Sviluppo Economico, Infrastrutture, Lavoro, Politiche agricole, Affari regionali) e molte direzioni all’interno di ogni ministero. Almeno la metà degli assessorati regionali ha a che fare in qualche modo con i fondi europei. Poi vi sono le migliaia di enti e agenzie nazionali e regionali per la formazione, il lavoro, l’internazionalizzazione delle imprese, e via dicendo. Certe regioni hanno persino diversi fondi pubblici per start-up, ognuno con pochi milioni di euro, e ognuno gestito da un assessorato diverso. Così come vi sono regioni con decine di agenzie o aziende per lo sviluppo, una struttura di partecipazioni incrociate così aggrovigliata che è praticamente impossibile da dipanare. Alla fine, migliaia di persone campano nel sottobosco creato da questo fiume di denaro e queste migliaia di enti»

Si chiamano “costi della politica”, si direbbe. L’unica cosa che non è ancora stata afferrata appieno dall’opinione pubblica italiana è che l’efficienza della nostra spesa pubblica non è imputabile né all’ottusità della Merkel né alla curvatura delle banane decisa da Bruxelles, ma è una dinamica interamente Made in Italy. E questo possiamo gestirlo solo internamente, con una “rivoluzione culturale” che spenda meglio i fondi pubblici, sia quelli nazionali che quelli comunitari. Fosse così semplice. Forse meglio invocare l’ubiquo “agente ostruente esterno”, che poi tanto esterno non parrebbe.

Ovviamente la proposta di Perotti (“il mio regno per un taglio al cuneo fiscale”) non ha alcuna possibilità di realizzarsi, visto che dovremmo andare in Europa e dire ai nostri partner che siamo un paese di malversatori ottusi ed autolesionisti, oltre ad invocare in tal modo una sorta di opt out dalle politiche comunitarie, di coesione e non, al solo scopo di recuperare questi maledetti soldi per l’altrettanto maledetto cuneo fiscale. Discorso analogo per le improbabili richieste di golden rule su investimenti, sia quelli old fashion che quelli in ricerca e sviluppo, che da noi diverrebbero corsi per estetiste d’impresa e sagre del cinghiale a chilometro zero e gomme sgonfie.

Il problema di questo paese è antropologico, prima che economico. E cercare cause o vincoli esterni è la via breve per non guardare in faccia la realtà.

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