Incalzati dal dissesto

Oggi, su LeoniBlog, un commento di Francesco Ramella allarga lo sguardo sul desolante panorama degli investimenti infrastrutturali pubblici italiani, e su quello che sinora è stato il loro disastroso rendimento per la collettività in termini di distruzione di risorse, abbattimento del tasso di crescita potenziale dell’economia, crescita diretta ed indiretta del debito pubblico, contributo allo stabilirsi di una robusta vox populi secondo cui tutto quello che è spesa pubblica, anche negli investimenti, è una bestemmia. Riusciremo a creare una discontinuità storica?

Il punto centrale dell’argomentazione di Ramella è che il danno non è dato solo dalle tangenti “esplicite”: quelle sono solo la ciliegina sulla torta e tendono anche ad essere importi non elevatissimi, rispetto al valore dell’opera. Il problema è la valutazione dell’impatto dell’opera, in termini di costi e benefici:

Non solo, come noto, quasi tutti i maggiori investimenti infrastrutturali realizzati negli ultimi vent’anni in Italia (ma non solo) hanno visto i costi lievitare in corso d’opera ma, quando prodotte, si sono rivelate clamorosamente errate le previsioni di traffico; scenari del tutto privi di riscontro nella realtà vengono riproposti anche nei più recenti documenti governativi.
Quale che sia la responsabilità giudiziaria, è quindi provata “al di là di ogni ragionevole dubbio” l’incapacità o, peggio, il disinteresse da parte chi ne ha avuto la responsabilità sia tecnica che politica, a valutare correttamente l’opportunità o meno di realizzare determinati investimenti e ad assicurare un soddisfacente controllo dei costi.

Mancano valutazioni di costo e beneficio, o meglio pare mancare il ricorso sistematico alle best practices internazionali. E questo modo di operare prosegue da lustri, o meglio da decenni, ed ha prodotto il cumulo di macerie di risorse collettive che abbiamo davanti agli occhi. Scrive ancora Francesco:

Considerato che nel “Programma Infrastrutture Strategiche” sono previste infrastrutture ferroviarie per oltre 30 miliardi di euro e che, per la maggior parte di esse, sussistono condizioni del tutto analoghe a quella sopra delineata, si può ottimisticamente prevedere che, qualora realizzate, il danno arrecato alla collettività sarebbe superiore ai 20 miliardi.
Nell’immediato è quindi assai opportuno il congelamento di tutte le Grandi Opere che sembra essere stato ipotizzato dal Governo ed una revisione, sulla base della metodologia standard riconosciuta in ambito internazionale, delle analisi economiche e finanziarie condotte finora.

Occorre anche chiedersi per quale motivo lo status quo dell’investimento infrastrutturale sia stato preservato nei decenni. Per quale motivo nessuno dei governi succedutisi almeno nell’ultimo quarto di secolo non abbia ritenuto di chiedersi perché le nostre grandi opere sono un esempio da manuale di disfunzionalità e distruzione di valore. Evidentemente meglio farsi bastare, per quelli in buona fede ed anche per gli “altri”, le fiabe sull’onerosità delle opere di “mitigazione ambientale”, per abbellire il paesino di turno, sfregiato dall’attraversamento dell’autostrada o della ferrovia, e magari prendersela con i soggetti affetti dalla sindrome Nimby, che a volte tutti i torti non è che li abbiano. Oppure tornare alla principale fiaba italiana, quella dell’orografia che ci gioca contro e rende tutto più costoso. E le varianti in corso d’opera, ed il destino cinico, baro e franoso. Ma ora siamo al capolinea.

Nel paese dove l’investimento pubblico è sinonimo di malversazione, e dove il ricorso a capitali privati è altrettanto sinonimo di distruttiva cattura regolatoria, emerge in tutta la sua desolante evidenza il deficit culturale che ha distrutto questo paese, e che ha prodotto una classe politica specchio molto fedele di un elettorato privo di senso dello stato inteso come senso di comunità. Come comunità nazionale stiamo viaggiando su un ponte diretto verso il nulla. Possiamo invocare, come la nostra inclinazione culturale ci suggerisce, il complotto esterno e la camicia di forza monetaria e fiscale, quelle che ci impediscono di stampare moneta e fare deficit per finanziare tante magnifiche opere pubbliche con cui far ripartire il paese, proprio come quelle realizzate sinora. Oppure possiamo invocare leggi esemplari, prescrizioni dilatate sino al giorno del giudizio, autorità anticorruzione che si stagliano vindici in mezzo al cielo e magistrati con spada fiammeggiante ad ogni angolo di strada e di cantiere.

Ma questa sarebbe la continuità degli illusi e degli autoingannati. Cioè dei falliti. Ci serve altro, ben altro e su ben altra dimensione. Ma questi cambiamenti richiedono molto tempo, e questo paese di tempo non ne ha più. Lo ha murato nel pilone di un viadotto franato.

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