Tra pochi giorni conosceremo il giudizio della Commissione europea sui progetti nazionali di legge finanziaria 2016. In quella circostanza potremo valutare che pensano a Bruxelles della Francia, violatore seriale dei parametri di bilancio pubblico, o della Spagna, che cresce molto ma resta indietro nel percorso di rientro verso il risanamento fiscale, o dell’Italia e della sua manovra a deficit, con peggioramento del saldo strutturale e previsioni di flessione del debito-Pil che appaiono piuttosto fragili. In quella circostanza sapremo anche se a Bruxelles è arrivato il “cambiaverso”, con passaggio da austerità idologica ed inflessibile a flessibilità bizzarramente pro-ciclica, cioè allentamento fiscale anche durante una espansione. Nel frattempo, la Bce ha qualcosa di dire e ridire sul concetto di “riforme strutturali”.
Nell’ultimo bollettino mensile di Francoforte, infatti, si segnala che serve maggiore rigore metodologico nella valutazione del concetto di “riforma strutturale”. Un rilievo che pare ben attagliarsi al nostro paese, dove Matteo Renzi ormai vede riforme strutturali anche nello svuotamento dei cestini di Palazzo Chigi e dintorni, e sulla base di ciò rivendica i punti-fragola per poter fare più deficit, contro “gli ottusi burocrati di Bruxelles”. Andiamo con ordine. Ai fini della concessione di flessibilità di bilancio, chiamasi “riforma strutturale” quella che nel breve periodo impatta negativamente su crescita e conti pubblici di un paese. Questa è la definizione più spiccia ma anche più efficace, per afferrare di cosa stiamo parlando. Il deficit aggiuntivo servirebbe, in quest’ottica, a compensare il calo di domanda di breve periodo conseguente alle riforme. Metto mano al mercato del lavoro, eliminando gli attriti ai licenziamenti? Se siamo in un periodo recessivo, l’aumento di disoccupazione derivante da tale iniziativa verrebbe compensato da misure di espansione fiscale, ad esempio maggiore welfare per chi ha perso il lavoro.
La Bce osserva che “quantificare l’impatto di riforme strutturali implementate è soggetto ad alto livello di incertezza”. Serve poi anche valutare le ramificazioni di alcuni provvedimenti, senza limitarsi all’aspetto strettamente contabile: nel breve periodo, una stretta ai requisiti per ottenere sussidi di disoccupazione potrebbe impattare positivamente sui conti pubblici. Il problema, per la Bce, è che la Commissione europea ha iniziato a concedere più tempo per il rientro ai paesi che sono in procedura per deficit eccessivo sulla esclusiva base di riforme solo annunciate e non ancora implementate. Passi pure questa, è il discorso della Bce, ma serve una contropartita in termini di stretto monitoraggio di implementazione di tali riforme, oltre alla possibilità di agire in via cogente sulle azioni di riforma di tali paesi. Diversamente, si finisce con l’avallare il gioco dei rinvii e delle promesse, in cui ad esempio la Francia è maestra, contando sulla propria qualifica di barboncino della Germania, oltre che sul fatto di essere “too big to enforce” sul piano delle regole di bilancio. Ma questo non fa che indebolire la credibilità dell’intera governance europea, oltre a far schiumare di rabbia i piccoli paesi che sono stati massacrati di austerità.
La Ue rischia quindi di passare da un estremo all’altro, nel proprio “libro” delle regole fiscali, fuorviata da una ripresa figlia di Draghi e del prezzo del greggio, e vittima del proprio mal riposto autocompiacimento. A molti paesi questa posizione fiscale pro-ciclica serve a far respirare i propri elettorati, dopo anni di acute sofferenze, e disinnescare i movimenti populisti. Al prezzo di spingere gli squilibri più in là.
Futile e pleonastica nota personale a piè di pagina – “Ah, questo Phastidio a cui non va mai bene nulla. Ma non eri a favore di più flessibilità e meno austerità?”. Certo, cicci, ma continuo ad avere seri problemi con gli approcci pro-ciclici. Quindi sia con strette fiscali che si autoalimentano, che con deficit fatti durante le fasi di ripresa. Più chiaro, così?