Sul Financial Times è comparso un commento di Adam Posen, presidente del Peterson Institute for International Economics, e dell’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, oggi senior fellow dell’istituto guidato da Posen. Il tema del commento è: perché al Giappone serve più inflazione, e come procurarla. Lo svolgimento è piuttosto convoluto, a dirla tutta.
Perché al Giappone serve inflazione? Secondo Posen e Blanchard (d’ora in avanti, PB), perché lo stock di debito pubblico giapponese (pari al 160% di Pil su base netta) rischia di andare fuori controllo, in caso di shock negativo. Serve quindi inflazione come forma di tassazione a carico dei creditori dello stato giapponese (cioè i suoi cittadini, per la quasi totalità), per erodere il peso reale del debito pubblico. E sin qui, nulla di rivoluzionario.
Ma sinora la cosiddetta Abenomics non ha fatto il miracolo. Niente inflazione e niente crescita sostenuta dei salari, malgrado le pressioni di Abe e del suo governo sulle imprese. Che fare, quindi? Secondo PB, serve “una spirale prezzi-salari di quelle temute dagli anni Settanta”. Per ottenerla, bisognerebbe partire dal 2016 con aumenti salariali del 5-10% per tutti, nel settore privato e per i pubblici dipendenti, integrati da una super-indicizzazione del salario minimo, di almeno il 3% annuo. Se vi state chiedendo come riuscirebbero le imprese giapponesi, in tale scenario, a restare sui mercati internazionali, PB hanno la risposta: crediti d’imposta per le imprese che aumentano i salari, in modo da sterilizzare i maggiori oneri. Quindi, più deficit pubblico, segnate questo punto.
Non è finita: la Bank of Japan dovrebbe accomodare questo trend e le relative aspettative, innalzando il target di inflazione dall’attuale 2% al 5-10% lungo parecchi anni. Se vi state chiedendo che accadrebbe ai rendimenti nominali dei titoli di stato giapponesi, con una inflazione-obiettivo al 5-10, e se la vostra risposta è “salirebbero almeno in pari misura”, PB vi rispondono che la banca centrale dovrebbe stampare ancor più furiosamente per tenere i rendimenti nominali bassi, e di conseguenza i rendimenti reali crollerebbero in territorio fortemente negativo. Parimenti, la BoJ dovrebbe pilotare il deprezzamento dello yen in misura almeno pari alla maggiore inflazione, per non danneggiare la competitività delle imprese nipponiche. Questo marchingegno pare avere numerose parti mobili, diciamo.
Nella loro proposta, PB non fanno menzione dell’esercito dei pensionati giapponesi, a cui servirebbe una indicizzazione integrale all’inflazione, per evitare di finire sulla strada. Altro deficit pubblico. Ma che sarà mai, visto che si tradurrebbe in debito destinato a svalutarsi pesantemente in termini reali? Secondo PB, alcuni anni di questa giostra di inflazione al 5-10% ridurrebbero il debito netto di 8-16% annuo. Ad evitare che qualcuno si entusiasmi troppo per questa trovata, e corra a stampare moneta all’impazzata al grido di “Visto? Visto?”, i due economisti precisano che l’idea non funzionerebbe in regime di cambi fissi (chi l’avrebbe mai immaginato?) e per quei paesi che hanno costi del lavoro non competitivi, “come la Grecia”. Ah, che peccato.
Però a noi viene in mente una strada molto più diretta, se il punto è quello di abbattere lo stock di debito. come suggerito dall’ultimo presidente della Financial Services Authority britannica, Lord Adair Turner: monetizzare il deficit pubblico. Così semplice? Anche no, non fraintendeteci. È solo che la proposta Posen-Blanchard appare un tipico esempio di barocco da economisti, perfetto per chi va pazzo per piani ben riusciti del tipo “ipotizziamo di avere un apriscatole”. E comunque non scordate che, alla fine, con i vari QE, i titoli del debito pubblico restano in mano alle banche centrali. Anche senza arrivare alla monetizzazione conclamata del deficit pubblico (quella che tanto piacerebbe ai saltimbanchi di casa nostra), si può comunque trovare qualche espediente per attenuare l’impatto dell’onere del debito. È solo questione di tempo.