Tutto è cominciato con l’incontro tra Matteo Renzi e Jean-Claude Juncker, la settimana scorsa. Con la decisione di fare interloquire il commissario Pierre Moscovici ed il ministro Pier Carlo Padoan per trovare un’intesa sulla leggendaria flessibilità. Da quel momento, la macchina italiana dello spin ad uso domestico è tornata a marciare a pieno regime, alcuni selezionati giornali hanno ripreso a svolgere il loro ruolo primario di buca delle lettere ed alcuni personaggi hanno deciso di perdere definitivamente lo spicchio di faccia che era loro rimasto.
Domenica, su Repubblica, usciva un articolo di Claudio Tito che aveva un sottotitolo a dir poco lisergico: “L’esecutivo italiano sta elaborando un progetto per ridurre le imposte a livello continentale già nel 2016, da presentare ai leader Pse il 12 marzo“. Pensate: il Tesoro italiano “studia un piano” per ridurre le tasse a tutta Europa. Una indiscussa leadership che segue, consolida e rafforza il celebre “position paper” di via XX Settembre di cui nessuno si è accorto in Europa e che pure in Italia ha trovato distratti gli abituali cantori filogovernativi.
L’audace piano renziano, da portare al Consiglio europeo del 17 marzo via preliminare endorsement del Pse il 12, ha anche un “preambolo” politico: i governi incumbent tendono ad essere puniti nelle urne. Quindi, argomentano i nostri piccoli strateghi, meno tasse per tutti. Ci sarebbe il piccolo dettaglio di tagli di tasse in deficit che alla fine andrà ripagato, ma sono dettagli. L’articolo di Tito contiene un passaggio surreale, in cui di fatto si “suggerisce” quale sarà la strategia prescelta ma ci si premura di smentire che la linea di condotta sarà proprio quella:
Nelle bozze in esame, infatti, nessuno prende in considerazione l’ipotesi limite di scorporare dal calcolo del deficit i soldi stanziati per far scendere la pressione fiscale. L’idea, semmai, è quella di rendere ancora più cogente la regola della “flessibilità”
Ora, a parte l’ossimorica e dadaista “flessibilità cogente”, l’ipotesi che “nessuno prende in considerazione”, dopo anni passati a chiedere di scorporare dal deficit di tutto, dagli investimenti alla carta igienica, è semplicemente demenziale. La grandezza è il deficit-Pil, si può incrementarla agendo sulle spese o tagliando le imposte, ad esempio le aliquote nominali. Voi riuscite a prefigurarvi una “clausola di flessibilità” di questo tipo? Un paese vuole aumentare il deficit-Pil attraverso più spesa pubblica e si sente dire “non si può, devi ridurre le imposte!”. Siamo praticamente all’accettazione di un reparto psichiatrico.
A parte questi sofismi, il “suggerimento” contenuto nel pezzo di Tito è bastato per provocare un effetto-calabrone sugli altri media. In particolare sul Tg de La7, dove Marco Fratini ha subito rilanciato “l’ipotesi che nessuno prende in considerazione”. A questo punto, lanciato il sasso nello stagno, le onde si sono rapidamente diffuse alla politica. Il primo a zompare sulla meravigliosa proposta è stato il vice ministro all’Economia, Enrico Morando, evidentemente ansioso di riprendersi visibilità dopo un periodo di appannamento.
Pronti via, sul Corriere di lunedì ecco l’intervista di Mario Sensini a Morando, che ha un incipit da letterina a Babbo Natale:
L’aumento dell’Iva congelato per tre anni, fino al 2019. Poi il taglio dell’Ires di quattro punti, già finanziato dal bilancio pubblico, e l’alleggerimento dell’Irpef, o un nuovo taglio al cuneo fiscale
E pure un trenino elettrico, se riusciamo! Morando, che dopo tutto ha istinto ed un sistema di warning sul senso del ridicolo, precisa che serve comunque “tagliare la spesa” restando entro il 3% di deficit-Pil. Segue abituale giaculatoria: Renzi ha già “ridotto le tasse”, gli 80 euro non dovrebbero essere conteggiati come spesa (ma quello sono, o meglio sono tax expenditure, ai fini del deficit: politici che sanno far di conto, ne abbiamo?), il governo è sempre riuscito a neutralizzare le clausole di salvaguardia (beh, si, rinviandole e cumulandole di anno in anno sino a finire spalle al muro, ma sono dettagli). Oltre a ciò, ha precisato Morando, serve “rendere strutturale la riduzione dei contributi”, dopo la costosa decontribuzione a termine della cui inefficienza solo ora al governo e dintorni si inizia a prendere coscienza.
La conferma di questa presa di coscienza l’abbiamo avuta anche nelle parole del responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, che intervistato ieri dal Quotidiano Nazionale ha rimarcato che
«Una delle storture principali delle aliquote Irpef è il salto del prelievo, dal 27 al 38%, per i redditi che superano i 28mila euro. Parliamo di classe media. Ogni punto di riduzione di questa aliquota vale circa mezzo miliardo di euro»
Ehilà, benvenuto! Ma una domandina: visto questo problema di inclinazione della curva Irpef, e visto che l’intervento “strutturale” sarebbe costato, nelle stime di Taddei, quattro miliardi e mezzo, potremmo cortesemente sapere per quale diavolo di motivo vi siete impiccati ai dieci miliardi annui di spesa degli 80 euro? E non è che questo demenziale disegno della curva Irpef sia emerso la settimana scorsa. Pensate: due anni addietro c’erano persino proposte operative per risolverlo, che qui abbiamo sempre sostenuto e caldeggiato. Eh, le prese di coscienza.
Ma bando a questi sofismi: ora l’intero paese, almeno nella sua proiezione mediatica, è impegnato a dibattere furiosamente su questa fondamentale “riduzione delle tasse” che l’avanguardia italiana sta portando in Europa. Ognuno ha già presentato la lista della spesa, come si faceva due o tre anni fa impegnandosi la spending review che non vi fu; i talk politici sono pronti all’ennesimo brainstorming da pollaio. Saremo anche nelle retrovie per innovazione tecnologica, ma quanto a realtà virtuale restiamo imbattibili.