Ma lo “scandaloso” Weidmann non ha tutti i torti

Un nuovo ed antico tormentone di questa Eurozona lacerata e nevrotica ha ripreso corpo in queste settimane: i tedeschi che puntano il dito contro l’Italia, l’Italia che punta il dito contro la Germania. Dinamica frusta e stucchevole, inasprita dai tassi negativi di Mario Draghi, che stanno rendendo nervosi risparmiatori e governanti tedeschi, dimentichi che esistono risparmiatori anche in Italia e nel resto d’Europa, che affrontano le stesse problematiche. Nel mezzo, dispettucci assortiti, con i giornali popolari tedeschi che tentano di fare lo sgambetto al turismo italiano, provocando le solite reazioni pittoresche a casa nostra, anche se di fatto questa è la ritorsione verso un premier italiano che si è detto pubblicamente “preoccupato” per la salute della prima e della seconda banca tedesche, oltre che per tutto il sistema creditizio teutonico. Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, all’Asilo Mariuccia d’Europa, dove tic e luoghi comuni ormai sono incontrastati padroni del campo.

Anche le ultime esternazioni romane del capo di Bundesbank, Jens Weidmann, si inscrivono in questo ormai ricco filone, con annesse reazioni sdegnate di praticamente tutta la stampa italiana. C’è persino “qualcuno” che è riuscito a tirare fuori nuovamente la purissima idiozia dell'”ordine” dato dal governo tedesco alle proprie banche, nel 2011, di vendere tutti i titoli di stato italiani, pensate. E questo qualcuno non è avventore abituale di un bar ma importante giornalista di non meno importante quotidiano italiano. Ormai è impossibile uscire da questo loop, dove torti e ragioni sono (più o meno) equamente distribuiti tra le parti in causa.

Intanto, su una cosa Weidmann ha ovvia ragione: l’euro non è irreversibile. Per un motivo banale: è un costrutto umano, e nessun costrutto umano è irreversibile. Poi, ci sentiremmo di dare ragione al presidente della Buba circa il fatto che le decisioni prese dai singoli governi ricadono pesantemente sulla costruzione europea: infatti, i diktat tedeschi hanno grandemente esacerbato la crisi dell’Eurozona, anni addietro: imponendo una terrificante stretta fiscale prociclica che ha mandato a gambe all’aria molti paesi, incluso il nostro. A dirla tutta, noi eravamo da tempo in attesa di incontrare il nostro destino: serviva solo un catalizzatore per precipitare la nostra crisi esistenziale, con buona pace dei nostalgici da lenti deformanti dell’Età dell’Oro della lira, delle svalutazioni competitive e dei dissesti che hanno puntellato la storia più o meno recente di questo paese.

È evidente in un modo disarmante che un paese non può perseguire la propria politica fiscale, causare ricadute sul resto del blocco e proseguire come se nulla fosse. Vale per i tedeschi e per tutti gli altri. Ora ci sta provando Matteo Renzi, con misure fiscali che stanno mostrando la corda e rivelandosi del tutto inefficienti ed inefficaci, mentre sullo sfondo resta la crisi del nostro debito pubblico, che viene al momento anestetizzata dal crollo dei tassi d’interesse, che pure ha motivazioni fondamentali, che i tedeschi non riescono a cogliere. Altra cosa che i tedeschi fingono di non cogliere è che, se l’Italia resta una minaccia per l’Eurozona, altri paesi non sono da meno. La Francia, ad esempio, è violatore seriale dei parametri fiscali ma non risulta che il mondo politico tedesco punti il dito contro Parigi con la stessa frequenza con cui lo fa verso Roma.

Che fare, quindi? Non da oggi, ci sono due alternative, escludendo il breakup, cioè la dissoluzione della moneta unica. La prima è quella di un deciso passo avanti sulla strada dell’unione politica, che implichi un ministro europeo delle Finanze e la centralizzazione del processo di bilancio, sottraendola in misura decisiva ai governi nazionali. Questa strada è anche quella che porta agli eurobond e la probabilità che si realizzi è nettamente inferiore a quella che il pianeta Terra sia distrutto dallo scontro con un meteorite gigante. L’alternativa è quella di ripiegare per linee nazionali, più di quanto fatto sinora. Questo corso d’azione pare ormai essere quello scelto da Berlino, un’opzione divenuta tanto più forte quanto più la Bce si è inoltrata nella politica del QE e dei tassi negativi. Ecco perché La Germania non ha alcuna intenzione di ratificare la garanzia europea sui depositi bancari: prima occorre recidere o almeno allentare il cordone ombelicale che lega debiti sovrani e banche nazionali, a cui l’Italia si oppone fieramente. L’idea tedesca è che, se (o quando) il nostro paese farà il botto, le conseguenze sistemiche e comunque il fallout sulla Germania dovranno essere minime, nei limiti del possibile. Piaccia o meno, è razionale.

Nella stessa corrente di pensiero si inserisce anche la richiesta tedesca di default dei debiti sovrani mediante riduzione del loro valore attuale, cioè con allungamento delle scadenze del debito e probabilmente anche delle cedole, come prerequisito per ottenere aiuti comunitari. In pratica, la filosofia del bail-in applicata ai debiti sovrani. E, quel che è peggio, si tratta di un corso d’azione che non fa una grinza, nella situazione attuale dell’Eurozona. Sappiamo che i più vispi tra voi staranno già accarezzando l’idea di uscire dall’euro e stampare la moneta necessaria a rimborsare i titoli di stato e guidare la rinascita del paese ai bei tempi andati, quelli in cui sono state poste le solidissime basi dell’attuale dissestato declino. Ognuno è libero di ricreare i giochi della propria infanzia, dopo tutto.

Come finirà? Quello che possiamo dire è che l’Italia mantiene una fragilità strutturale che sta crescendo ed approfondendosi col trascorrere del tempo, anche per motivi demografici oltre che del più complessivo sistema paese, e che trovano puntuale riscontro nella scadente qualità della sua “ripresa”, e sempre più si trova ad inseguire affannosamente “soluzioni di sistema” che ricordano sinistramente le dita disperatamente infilate nelle crepe di una diga. Ma questa non è esattamente una rivelazione, no?

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