Oggi sul Corriere c’è un editoriale che ricorda a noi italiani perché stiamo inesorabilmente affondando, peraltro non da ieri. Non sono concetti rivoluzionari né inediti: stranamente sono però assenti da sempre dal dibattito pubblico italiano, troppo assorbito a discettare di austerità che non esiste, di Germania cattiva, di uscite dall’euro che ci porteranno in paradiso senza passare dal via, ma anche di mance elettorali continue, fatte confortevolmente a deficit, senza che questa persistente festicciola fiscale produca risultati minimamente positivi. Eppure, basterebbe osservare il comportamento di alcuni “canarini nella miniera” per rendersi conto di quanto la sabbia nella clessidra italiana stia scorrendo, inesorabilmente.
L’editoriale di Lorenzo Bini Smaghi mette in evidenza l’andamento desolante della produttività del paese nell’ultimo biennio, in continuità con la nostra “tradizione”. Se c’è un indicatore di sintesi estrema per valutare l’azione di un governo, quell’indicatore è la produttività. Ebbene, da questo versante nulla di buono. Scrive Bini Smaghi:
«Nel 2015 la produttività media del lavoro è scesa dello 0,1% in Italia e quest’anno è prevista aumentare dello 0,2%. Negli stessi due anni la produttività media nell’area dell’euro è aumentata dello 0,6% e dello 0,5%, in Germania dello 0,9% e dello 0,6%»
La stagnazione nella crescita di produttività italiana nel 2015 vi è stata segnalata da un piccolo blog, settimane addietro. Utile che Bini Smaghi rilanci il tema, che latita nel dibattito pubblico italiano, troppo assorbito dai bonus bebè ed altre mance multiple degli 80 euro, nella ormai classica cabala renziana. I motivi del ritardo di produttività li conosciamo da sempre ma utile ribadirli:
«Si tratta di un ritardo accumulato in molti settori, come il basso livello di istruzione dei giovani italiani, le scarse conoscenze linguistiche e nelle materie scientifiche, la formazione professionale limitata, la bassa diffusione di internet e la scarsa conoscenza delle tecnologie informatiche, il tasso limitato di investimenti in ricerca e sviluppo, la dimensione contenuta delle aziende, le barriere relativamente più elevate alla concorrenza nelle professioni e nel mercato dei beni e dei servizi, la corruzione e la mancanza di meritocrazia nelle selezioni di personale. In tutti gli indicatori utilizzati per misurare questi fattori l’Italia si colloca nel gruppo di coda, anche se in alcuni casi si sono registrati dei passi avanti»
Sono ritardi che non possono essere recuperati nello spazio di una notte ma serve almeno instradare il paese in una certa direzione. Allo stato attuale questo instradamento non si coglie, ed il trascorrere del tempo in questa condizione di stagnazione ci avvicina al punto di non ritorno. L’altro elemento che gioca pesantemente contro l’Italia è la demografia, in termini di ridotta natalità ma anche di qualità dell’immigrazione. Quest’ultima tuttavia dipende dalla presenza di capacità di attrazione di soggetti qualificati, cioè dal patrimonio delle nostre imprese e dalla loro specializzazione. Ma il nostro paese tende ad essere “specializzato” in settori a basso valore aggiunto, inesorabilmente declinanti. Tutto si tiene: basso valore aggiunto, competizione internazionale su fattori di prezzo, quindi soprattutto sul costo del lavoro, bassa capacità di attrarre immigrazione qualificata, stagnazione della produttività, declino di lungo periodo degli standard di vita, progressiva insostenibilità dello stock di debito pubblico, che finirà con l’essere compensato con la ricchezza privata accumulata nelle ultime generazioni.
L’Italia è posizionata in modo complessivamente “sbagliato”, rispetto alle dinamiche competitive globali ed alla generazione di valore aggiunto. Anche questa è tendenza che non si inverte durante una notte di luna piena, ma le condizioni di contesto per indurre l’evoluzione continuano a mancare, mentre voi vi baloccate col Jobs Act o, dall’altra parte, col reddito di cittadinanza e con la stampa di cartamoneta. Ma quanto vi piacciono le grandezze nominali in luogo di quelle reali? E veniamo ai conti pubblici italiani, nell’attesa delle “raccomandazioni” della Ue, che pare eviterà di aprire procedure di infrazione sul rapporto di indebitamento ma chiederà, al più tardi per il 2017, una correzione di una decina di miliardi di euro per la quale semplicemente non esiste spazio, a meno di utilizzare le clausole di salvaguardia. Possiamo prenderci confortevolmente per i fondelli ipotizzando nuove spending review, comunque.
Parliamo della posizione fiscale italiana e della sua variazione nel biennio 2015-16. Sempre Bini Smaghi:
«Il saldo di bilancio primario — ossia al netto degli interessi sul debito — corretto per gli effetti del ciclo economico, mostra che l’Italia ha registrato nel biennio una espansione cumulata pari all’1,3% del Pil, contro lo 0,4% della media dell’area dell’euro (0,9% in Spagna, 0,3% in Germania e 0,1% in Francia). Non è dunque l’austerità impostaci dall’Europa, come spesso si sente dire, a farci crescere di meno»
Questo è il punto. L’Italia si trova in condizioni fiscali inequivocabilmente espansive ma di questo pare non esservi contezza, tra i nostri editorialisti e politici così impegnati a dire “basta all’austerità imposta dalla Germania”. Provate a riflettere: se cresciamo così poco pur in presenza di una evidente espansione fiscale, che accadrà in caso di rallentamento o di recessione conclamata? Semplice: che il deficit (di pessima qualità) fatto in questo periodo, cumulandosi con il debito esistente, rimetterà pesantemente in discussione la sostenibilità del medesimo. In quel momento le nostre banche saranno le prime ad essere colpite, perché legate a doppio filo al nostro debito sovrano. I più osservatori tra voi avranno colto che già ora le azioni bancarie italiane stanno facendo peggio di quelle europee, che pure non se la passano benissimo.
Provate ad unire i puntini. Se il rapporto debito-Pil non flette, la percezione del mercato verso l’Italia prenderà una ed una sola direzione. A dirla tutta, visto che lo spread sovrano è per ora anestetizzato dall’azione della Bce, il modo migliore per esprimere un giudizio di sintesi sul paese è quello di operare sulle azioni delle nostre banche. Ma voi continuate a ragliare su quanto la Germania ha speso per salvare le proprie banche, mi raccomando. A scanso di equivoci, un’ultima considerazione: se pensate che l’ostacolo tra noi ed il rilancio di produttività e crescita economica sia il governo Renzi, provate con un governo Di Maio o Salvini. Anche per questo la prognosi del paese resta sfavorevole.