Nel clima spensierato della Pasqua è passata pressoché inosservata (ma domani tornerà a fare increspare le acque della nostra dichiarazia in decomposizione) l’intervista del Messaggero al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Il quale, dopo tre anni trascorsi a prestare una patina di rispettabilità tecnocratica al renzismo (ed affondare in parallelo la propria reputazione), sta progressivamente emancipandosi dal committente, attirandosene gli strali. A questo giro, Padoan rispolvera i “testi sacri” dell’economista per lanciare un’idea che sa di muffa ma che potrebbe non aver alternative, oltre ad essere probabilmente una sorta di moneta di scambio con la Commissione Ue.
Sulla disattivazione dei 19 miliardi di aumento Iva per il 2018, messo da Matteo Renzi con l’avallo di Padoan medesimo (ricordate questo punto: eviterete di maledire l’Europa), il ministro è molto manieristico:
Qual è la sua idea per evitare che il prossimo anno Iva e accise aumentino per oltre 19 miliardi?
«La strada passa per ulteriori progressi dell’amministrazione tributaria nella lotta all’evasione, che in parte abbiamo già approvato con il decreto di martedì, per ulteriori margini di efficientamento della spesa e per altre voci che andranno discusse il più serenamente possibile. Come le spese fiscali»
Che tradotto significa: split payment a più non posso, ennesima raschiata semi-lineare del barile della spesa pubblica ed eliminazione di alcune tax expenditures. Se pensate di aver già letto questo passaggio più e più volte negli ultimi tre anni (o cinque, o sette), non sbagliate. Dopo di ciò, arriva il punto centrale del Padoan-pensiero, ed è l’assist offertogli dal suo ex datore di lavoro, l’Ocse:
L’Ocse suggerisce di finanziare un taglio cospicuo del costo del lavoro lasciando aumentare l’Iva, soprattutto nelle aliquote più basse. Condivide?
«Il suggerimento dell’Ocse lo si trova nei manuali di finanza pubblica. Non tutte le tasse sono uguali, hanno sulla crescita un effetto diverso. Il dibattito sulle tasse si compone di due parti: uno, alzarle o abbassarle e la risposta è abbassarle. La seconda, su cui mi pare si discuta poco, è quali tasse ritoccare. Va rivendicato quel che è stato fatto negli anni scorsi: la pressione fiscale si è abbassata, ora per le imprese è al di sotto di quella di Francia e Germania. Ma bisogna ricordare che le riduzioni fiscali sono importanti e benefiche ma devono essere credibili, finanziate in modo permanente»
Posta in questi termini, si tratta di una supercazzola che non risponde ad alcunché. Ed infatti gli intervistatori insistono:
Non ha detto se è d’accordo.
«Lo scambio tra Iva e cuneo fiscale è una forma di svalutazione interna che beneficia le imprese esportatrici, che sono anche le più competitive, le quali non possono più avvantaggiarsi del tasso di cambio. Si tratta di una ricetta classica e siccome io sono anche un tecnico ricordo che nelle scelte politiche non si possono ignorare gli aspetti tecnici, e viceversa. Diciamo che è un’opzione sostenuta da buone ragioni»
Sarà anche una “ricetta classica”, che peraltro la Germania ha adottato parecchi anni addietro, ma è anche lievemente in ritardo sui tempi, vista la quantità di soldi pubblici “a tempo” che sono stati buttati nello sciacquone nell’ultimo triennio.
Noi siamo maliziosi ma, leggendo queste parole, abbiamo il sospetto che Padoan si accinga a tentare un baratto in Europa: alzare l’Iva non destinando l’aumento a riduzione del deficit bensì a taglio del cuneo fiscale, chiedendo a Bruxelles di aumentare il deficit-Pil a titolo di “flessibilità per le riforme strutturali”, nel caso di specie la “svalutazione interna” in cui l’aumento Iva finanzierebbe la riduzione del cuneo fiscale.
Ora, pensate: tre anni buttati mendicando più deficit per arrivare a questo “scambio”, da perfetti levantini incapaci. Non male, vero? Quanti tra voi hanno discreta memoria, ricorderanno il Padoan che spalleggiava l’eliminazione delle tasse sulla prima casa, decisa da Renzi. Eppure, i “sacri testi” dell’Ocse dicevano di fare esattamente il contrario, spostando la tassazione dalle persone alle cose. Ma il “tecnico” Padoan la pensava diversamente:
«La critica degli economisti è che abolire le tasse sulla casa sia meno efficiente che abbattere le tasse sul lavoro. È vero in generale ma, nel caso specifico italiano, l’abbattimento della Tasi è relativamente più efficiente» perché riguarda l’80% degli italiani (Ansa, 26 settembre 2015)
Se tanto ci dà tanto, tra non molto Padoan arriverà dicendo che serve reintrodurre la tassazione sulla prima casa, per ridurre il cuneo fiscale. Allo stesso modo in cui i gemelli Padoan erano contrari all’uso del contante ma anche favorevoli, quando Renzi decise (a capocchia) che, abbassando i limiti, si sarebbero stimolati i consumi. Ricordate? Come che sia, da domani la politica, di ritorno dalla pausa pasquale, avrà qualcosa su cui dividersi e su cui lanciare agenzie oltre la siepe.
Prendete nota dell’ipotesi: Padoan vuole negoziare con Bruxelles più Iva a fini di riduzione del cuneo fiscale, per avere un aumento del deficit nella legge di bilancio 2018. Non è chiaro se si tratti di iniziativa concordata col premier Paolo Gentiloni. Ma mettete sul conto del renzismo i 15 miliardi buttati in un triennio per fingere di ridurre il costo del lavoro. Perché i conti in sospeso si pagano, prima o poi.
Già che ci siete, prendete anche nota delle parole di Roberto Perotti, affidate ad un editoriale comparso su Repubblica di sabato 15 aprile, circa l’entità dei tagli che dovrebbero essere fatti nella prossima Stabilità:
«Secondo il Documento di Economia e Finanza appena pubblicato, il disavanzo di bilancio passerà nel 2018 all’1,2 per cento del Pil, dal 2,1: una riduzione di circa 15 miliardi. Per dare un’idea di cosa significhi questa cifra, la manovra “lacrime e sangue” del governo Monti nell’autunno del 2011 comportò una riduzione del disavanzo di circa 20 miliardi. Ma in quel caso tutta la manovra fu sulle entrate. La spesa pubblica scese di soli 2 miliardi. Questo governo invece ha già fatto sapere che non aumenterà le tasse, per fortuna. Qualcosa si cercherà di recuperare dall’evasione, diciamo due miliardi per essere generosi. Per raggiungere l’obiettivo, sarebbero quindi necessari 13 miliardi di tagli di spesa. Anche i bambini sanno che non succederà. Nei due anni 2015 e 2016, l’azione di governo determinò una riduzione netta della spesa di 4,5 miliardi complessivi: eppure era un governo che aveva in mano il Parlamento, almeno all’inizio, e poteva fare quello che voleva. Come si può pensare che questo governo, fragile e pieno di vincoli e veti, possa e voglia ridurre la spesa di 13 miliardi in un anno, e in un anno elettorale per giunta?»
Ecco, questa è la sintesi del fallimento italiano. C’è un vincolo di realtà ma i nostri eroi continuano a fottersene, di legislatura in legislatura. Salvo poi essere costretti a mettere toppe in condizioni più o meno drammatiche. Ed anche in quel caso, si tratta di errori tragici che stringono il cappio intorno al collo del paese. Anche il governo Monti, al netto di misure importanti dal lato spesa futura, come quelle sulle pensioni (che oggi stanno venendo disattivate alacramente dalle termiti della socialità), ha seguito questa nefasta “tradizione”, con una spremuta patrimoniale senza precedenti, che si è sommata a quella sui redditi.
La sintesi di tutto il discorso è: attenzione ad investire in questo paese. Perché questo è un paese guidato da sonnambuli sul cornicione che si portano dietro battaglioni di volenterosi lemming.