Pensioni “d’oro”, il ricalcolo contributivo che non lo era

Nei giorni scorsi è stato presentato un progetto di legge di iniziativa di due deputati (uno leghista ed uno pentastellato) relativo al ricalcolo delle cosiddette “pensioni d’oro”, che poi sarebbero quelle oltre i 4 mila euro netti mensili. Come noto, il M5S punta molto sul “ricalcolo” delle pensioni più ricche, per assegnare fondi alle minime e portarle alla famosa “soglia di cittadinanza” di 780 euro, che ad oggi resta irraggiungibile. La cosa interessante è il criterio di ricalcolo contenuto nella proposta di legge.

Come ricorderete, il vicepremier e bisministro Luigi Di Maio da alcuni mesi ce le sta frantumando con questa storia del “ricalcolo contributivo” delle “pensioni ricche”, il che avrebbe pure una sua logica equitativa, sia pure ex post. E infatti, in omaggio alla neolingua imperante di cui grillini e leghisti danno ormai quotidiana ostentazione, riuscendo solo a rendersi ridicoli, anche la proposta di legge parla di “ricalcolo contributivo”. Poi vai a controllare, e scopri tutt’altro.

Ad esempio, prendete l’articolo 1, leggete e portate pazienza, a breve sarà tutto chiarissimo:

«A far data dal primo gennaio 2019, i trattamenti pensionistici pari o superiori agli 80.000 euro lordi annui, liquidati a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria, sono ricalcolati riducendo le quote retributive alla risultante del rapporto tra il coefficiente di trasformazione relativo all’età dell’assicurato al momento del pensionamento – come risulta dalla tabella A allegata L. 335/1995 e successive modificazioni e integrazioni -, e il coefficiente di trasformazione corrispondente all’età prevista per il pensionamento di vecchiaia, di cui all’articolo 24, comma 6 del Decreto Legge n. 201 del 2011, convertito con modificazioni dalla Legge n. 214 del 2011»

All’articolo 2 e 3 si spiega che accade ai trattamenti pensionistici aventi decorrenza anteriore al 2019 ed al 1996, anno di entrata in vigore della riforma Dini sul contributivo. In essenza, la stessa cosa. Come si traduce, questo articolo 1? In un modo molto semplice:

Tutti le pensioni sono ricalcolate portando i coefficienti di trasformazione (cioè il numeretto che trasforma il montante contributivo in rendita pensionistica, che è funzione della speranza di vita) al valore relativo al pensionamento di vecchiaia al momento dell’uscita dal mercato del lavoro. In tal modo, la “rendita” si abbassa, anche di molto, ma con la clausola di salvaguardia che la tosatura non può far scendere il lordo pensionistico sotto gli 80 mila euro annui.

Che si evince, da queste criptiche parole? Una cosa: che il ricalcolo è tutto fuorché legato al sistema contributivo. In altri termini, non considera la situazione di quanti hanno pagato molti contributi e si sono ritirati prima dal lavoro. Il fatto che si tratti di una proposta di legge di iniziativa parlamentare consente di usarla come ballon d’essai, ed al bisogno anche di dimenticarla in un cassetto. Ma se così fosse, resterebbe in piedi la promessa di Giggino & C. sull’aumento delle pensioni minime e la fine della “pacchia” per i riccastri pensionati.

Ma se ci pensate, questo criterio di ricalcolo, che è il trionfo dell’incertezza del diritto (i.e. dell’arbitrio), permetterebbe di fare molte cose: ad esempio, servono soldi per integrare le pensioni di quota 100, che sarebbero un tozzo di pane raffermo essendo calcolate col contributivo? Nessun problema, si cambiano retroattivamente i coefficienti di trasformazione et voilà, la copertura eccola qua. Diffondete la povertà, basta pacchia, pezzenti a casa nostra!

Si spedisce qualche tribunetto della plebe a farsi intervistare da qualche barboncino da guardia, in televisione, e si aizza il popolo straccione contro questi plutocrati da mille euro al mese di pensione. Non è difficile, dopo tutto.

 

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