Sul Sole, l’editoriale del sabato di Alessandro Penati questa settimana è dedicato al tormentone della patrimoniale, lo strumento che nel corso degli anni consentirà di mantenere solvibile lo stato fallito chiamato Italia. Secondo Penati, ci sarebbero tre “modelli” di patrimoniale applicabili al caso italiano, che egli passa in rassegna critica.
La prima tipologia viene definita da Penati, con un certo senso dell’umorismo, “patrimoniale alla tedesca”. Non perché applicata in Germania ma perché i tedeschi sono molto attivi a far presente che l’Italia, essendo fortemente patrimonializzata, può mantenersi solvibile “compensando” debito pubblico e ricchezza privata. Almeno sin quando la seconda risulterà capiente. Abbiamo già iniziato a vedere all’opera questa compensazione durante il governo Monti.
Per ridurre il rapporto debito-Pil dall’attuale 133% alla media del 105% di Francia, Spagna e Portogallo, argomenta Penati, servirebbe un prelievo di 500 miliardi di euro, pari al 5,2% dello stock di ricchezza delle famiglie. Ma ci sono effetti collaterali indesiderati, almeno per gli italiani:
Lo spread italiano potrebbe scendere di 200 punti, innescando un circolo virtuoso che renderebbe il debito sostenibile. La discesa dello spread aumenterebbe il valore dei nostri titoli di Stato di circa 280 miliardi. Ma poiché i risparmiatori italiani ne detengono solo il 29%, oltre 200 miliardi di guadagni in conto capitale andrebbero a investitori stranieri, Bce e banche italiane. Questa patrimoniale consisterebbe dunque in un massiccio trasferimento di ricchezza dagli italiani a banche e soggetti stranieri. Oltre a deprimere in modo devastante consumi e investimenti e provocare crisi di liquidità indotte dalla necessità di vendite forzate per pagare la patrimoniale. Sarebbe un disastro per noi e un bel vantaggio per gli stranieri: una soluzione perfino peggiore di una ristrutturazione del debito pubblico.
Infatti questo è il motivo per cui i non residenti continuano a comprare i Btp, ed il motivo per cui le agenzie di rating non ci hanno ancora declassato a junk. Questo resta lo scenario più probabile, in caso di avvitamento della crisi. Sarebbe la ripetizione dello scenario 2011-2012, ed un ulteriore stazione della via crucis di questo morente paese.
Poi c’è la “patrimoniale alla Monti”, cioè ricorrente e simile all’inasprimento dell’imposta immobiliare e dell’imposta di bollo (oggi al 2 per mille) sulle attività finanziarie. Somiglia, sempre secondo Penati, all’Impôt sur la Fortune francese, ma io ricorderei che Macron ha ridefinito quest’ultima, concentrandola sulla ricchezza immobiliare, che non può lasciare il paese, mentre ha esentato quella mobiliare per attrarre capitali esteri.
Questa imposizione patrimoniale stranamente non viene percepita come tale da molti saccenti intellettuali da salotto televisivo, che spesso chiedono ai loro ospiti cosa pensano “dell’introduzione anche in Italia di una patrimoniale”. Lo so, ci vuol pazienza.
Secondo Penati, questo tipo di patrimoniale piacerebbe a imprese e sindacati nella misura in cui i proventi venissero destinati a riduzione del cuneo fiscale. Per ridurre di sei punti percentuali il costo del lavoro servirebbero 39 miliardi, ovviamente aggiuntivi all’esistente, pari allo 0,40% dello stock di ricchezza.
Ma per Penati questa strada non è buona:
In qualunque caso la patrimoniale sarebbe una mera redistribuzione del reddito, per lo più inefficiente, e in quanto tale non servirebbe per la crescita e l’occupazione perché non farebbe aumentare la produttività del lavoro – vero problema del Paese – che, secondo le elaborazioni di Ts Lombard su dati Ocse, è diminuita del 3,5% negli ultimi 20 anni, a fronte di un aumento medio del 15% negli altri Paesi europei.
Questo punto mi pare interessante. Non serve ridurre il cuneo fiscale e aumentare il reddito dei lavoratori dopo le imposte, sostiene Penati, perché comunque non si inciderebbe sulla produttività ma sull’esistente. In altri termini, se il tessuto produttivo italiano è in prevalenza a basso valore aggiunto, ridurre il costo del lavoro servirebbe solo a reggere la concorrenza estera per qualche tempo, rinviando la resa dei conti senza modificare l’esito ultimo e condannandoci a restare confinati in strati di produzione “povera”.
Non ho una opinione ferma di questa posizione di Penati. Se le cose stessero come egli sostiene, ogni tentativo di ridurre il costo del lavoro sarebbe inane, nell’attesa che il paese faccia il salto di qualità nel valore aggiunto. Può essere, ma allora lasciamo lo status quo e rifugiamoci nel sommerso.
Ultima tipologia di patrimoniale è quella “all’americana”, nel senso che gli enti locali sono interamente finanziati da una patrimoniale sugli immobili residenziali,
[…] che costituiscono una base imponibile strettamente legata a un territorio, il cui valore dipende anche dalla qualità della vita e dei servizi pubblici.
Per percorrere questa strada servono altri 24 miliardi, in aggiunta ai 36 ad oggi provenienti da Imu, Tasi e Tari. Ma la strada è ostruita da un sistema catastale che ignora i valori di mercato e dal centralismo della finanza pubblica, che ha tolto la tassazione sulla prima casa con motivazioni prive di senso oltre che inique, sostituendola con malcerti trasferimenti centrali sempre minacciati da tagli lineari presentati come spending review, sin quando lo Stato non deve intervenire per mettere pezze a colori a enti locali già falliti. E si torna al via.
Che dire? Che la prima tipologia di patrimoniale resta sul tappeto come ultima istanza in caso di emergenze, una delle quali potrebbe distare solo pochi mesi. La seconda merita ulteriori riflessioni ma pare troppo tagliata con l’accetta della ineluttabilità; la terza richiede un federalismo fiscale che in questo paese pare sempre più lontano, malgrado la propaganda sulle autonomie e le ovvie resistenze delle parti di territorio beneficiate da varie “perequazioni” nel corso dei decenni. Aggiungo che il concetto di autonomia locale, oltre alla responsabilità fiscale in loco, richiede anche la sanzione suprema del fallimento dell’ente locale. Voi pensate che in Italia queste eventualità sarebbero accettate sul piano culturale?
Comunque vada, state pronti al grande dibattito. Quello che si interroga sull’opportunità della patrimoniale mentre la medesima è già all’opera, destinata a diventare sempre più vorace. Ma la crassa ignoranza discernitiva di questo paese consente di applicare una forma di ipocrita neolingua. Non patrimoniale sulle attività finanziarie bensì “imposta di bollo”. Sempre detto, che chi parla male ragiona male e governa (o si fa governare) peggio.