Oggi sul Corriere c’è un editoriale di Paolo Mieli che già dal titolo apre il cuore alla speranza. La speranza che un numero crescente di italiani, magari sotto la “guida illuminata” di qualche editorialista, apra gli occhi davanti alla situazione psichedelica e kafkiana in cui il nostro paese è immerso. Si tratta di una speranza vana e vacua, perché semplicemente non esistono le condizioni culturali, ma almeno leggere analisi che dal retroscenismo onanistico da buca delle lettere e buco della serratura virano sulla psicologia e presto anche sulla psicopatologia di un paese fallito, mi è di (blando) conforto.
Il titolo, “Il principio di realtà rifiutato“, è già godevole. Lo svolgimento, di più.
Giuseppe Conte si sta appalesando come uno dei più straordinari illusionisti della nostra storia. Ipnotizzata la sua (peraltro consenziente) maggioranza, annuncia, dice, si contraddice, rinvia, alla fine poi ricomincia riportandoci al punto di partenza. Non esiste ormai più un solo punto su cui qualcuno nella maggioranza si attenga al principio di realtà.
Oggi è il ponte di Genova, ieri la riapertura delle scuole, domani il Recovery Fund. Ma come: sembrava tutto così perfettamente pianificato, com’è possibile questa secchiata in faccia di liquido scuro e maleodorante? Presto, un dibattito! Quello che però vorrei segnalare è che Conte sarà pure un illusionista, ma nei fatti è la persona “giusta” per tenere in piedi questa illusione. In questo senso l’ho “difeso” tempo addietro.
Mi spiego meglio: voi credete che il problema sia Conte? No, per nulla: il problema è un paese che ormai da molto tempo rifiuta il principio di realtà ed i suoi vincoli, come ben sa chi legge questi inutili pixel. Conte è il magniloquente ed ampolloso avvocato di bella presenza che serve da collante di una maggioranza che mai è stata tale. Come le precedenti, del resto. A ritroso nel tempo sino a quando? Molto a ritroso.
Anzi, andiamo oltre: in Italia non esistono maggioranze ma minoranze impegnate in un esperimento senza precedenti storici di programmazione neurolinguistica dell’elettorato (un elettorato evidentemente predisposto a tale esperimento), a mo’ di supplenza dell’esausta capacità fiscale che negli scorsi decenni ha dato a questo paese una parvenza cartonata di unità.
Badate, non è che “nella Prima Repubblica si stava bene”, o che “i politici della Prima Repubblica erano giganti rispetto agli attuali”. No. Nella Prima Repubblica c’erano i soldi per costruire coalizioni sociali, nella più completa assenza di valutazione di efficacia ed efficienza delle politiche pubbliche. Poi i soldi sono finiti, in conseguenza di questo ostinato rifiuto del principio di realtà, che è parte integrante e decisiva della cultura collettiva pubblica di questo paese. La Prima Repubblica ha gettato i semi del fallimento attuale.
Non è Giuseppe Conte che fa l’illusionista, sono i partiti ad essere consenzienti allo status quo, per manifesta mancanza di alternative. Vi pregherei anche di non alzare il ditino e dirmi “ma come, l’opposizione, Salvini, Meloni, Berlusconi… Piantatela di prendervi per il culo. Oggi tutti e chiunque sono impotenti e giocano alla PNL de noantri, attendendo che il popolo bue si compri la fontana di Trevi, resettando la memoria per autoassolversi. E infatti continua a comprarsela.
Mieli, che non è esattamente uno sprovveduto ed ha l’esperienza per capire quando è il momento di cambiare registro, questa cosa del collante fiscale di un paese senza progetto condiviso l’ha capita da quel dì:
[…] oggi forse dovremmo definire meglio cosa noi, con le nostre forze, siamo pronti a fare per il nostro Paese oltre a spendere i soldi che riusciremo a farci dare dall’Europa. Al momento non si vede all’orizzonte neanche un’idea di qualcosa che ci imponga di risanare ciò che va risanato. Siamo solo capaci di spendere facendo debito, debito e ancora debito. Un’attitudine che almeno trenta o quarant’anni fa serviva a render saldi gli accordi tra partiti. Oggi non c’è più neanche quello.
Siamo sempre alla terra promessa, quella dove la realtà non riuscirà ad entrare. Meno orario a parità di salario, più soldi a tutti e a chiunque, pensioni anticipate per il popolo più usurato del pianeta, elargizioni multiple senza condizioni sostanziali.
Che altro è la distopica leggenda della moneta da stampare a piacere, se non il rimedio onirico alla crisi fiscale? Che altro è la richiesta estenuante ed estenuata, ormai denudata anche di qualcosa che ricordi vagamente il concetto di dignità nazionale (in un paese che mantiene una robusta ricchezza privata), di sussidi dall’Europa? Ve lo (ri)dico: l’immissione di risorse fiscali dall’esterno per tenere accesa la giostra.
Ma non posso dare la lode a Mieli, perché egli chiude l’editoriale con un classico tic degli analisti politici italiani: il problema sta nel sistema elettorale. Ma quando mai!
Su un solo dettaglio l’accordo tra Pd e Cinque Stelle appare granitico: quello di un sistema elettorale che renda l’attuale stato delle cose immodificabile. Un sistema per fare in modo che sia impossibile per l’elettore scegliere una maggioranza e un programma di governo come tuttora accade per sindaci e presidenti di regione. Lo scopo è quello di agevolare al massimo i rimescolamenti parlamentari divenuti da tempo l’unica, vera specialità della sinistra italiana. Il tutto accompagnato da spudorate ammissioni del vero motivo per cui si procede in questa direzione: disarticolare l’attuale opposizione e impedirne la vittoria.
Eccolo, il tic: ah, se solo avessimo il sistema elettorale giusto! Questo è l’ennesimo proiettile d’argento. Vi rivelo un segreto: non esiste costrutto umano che gli umani non riescano a demolire, aggirare, disciogliere. E la legge elettorale è, sorprendentemente, un costrutto umano. Incredibile, vero?
Ad ogni legislatura si assiste a questo stucchevole minuetto: la maggioranza pro-tempore elabora una legge elettorale per “disarticolare l’attuale opposizione ed impedirne la vittoria”. Poi, non per caso, gli esiti elettorali sono opposti al corsetto della legge elettorale medesima e si torna al via della repubblica parlamentare, dove “le maggioranze si formano in parlamento e non c’è vincolo di mandato”.
Le transumanze tra gruppi parlamentari sono fisiologiche al modello culturale dominante del e nel paese: prometto la luna, arrivo nella stanza dei bottoni, sbatto il muso contro la realtà, fuggo dalla medesima gridando al tradimento della missione originaria del mio gruppo, prendo tempo, riprendo ad affabulare. Risciacqua e ripeti. Fuggi dalla responsabilità, trova il complotto e l’agente ostruente esterno, e resti in sella. In italiano non esiste equivalente del termine accountability.
Avessimo il “sindaco d’Italia” su scala nazionale, finiremmo ad avere la sua demolizione per le stesse vie, transumanza e ricostituzione di maggioranza differente. Non è un caso che l’affabulazione grillina abbia battuto sul vincolo di mandato: si tratta di concetto che serve a programmare e galvanizzare l’elettorato. Un elettorato spesso fatto da soggetti calvinisti col prossimo e cattolici con se stessi.
Paolo Mieli phastidioso ma non troppo, quindi. Forse perché non se la sente di mandare messaggi disperanti, dove il cambiamento è solo un miraggio, persistendo questa cultura nazionale. Forse ha ragione lui, che ha esperienza ed è saggio. O forse a sua volta si illude.
Photo by Niccolò Caranti / CC BY-SA