Oggi Istat ha pubblicato il dato consuntivo 2019 delle misure di produttività. Sono numeri molto interessanti perché, riferiti al breve termine, confermano la malattia italiana, la produttività del lavoro stagnante o -assai più di frequente- negativa, mentre osservando un arco temporale più esteso indicano che il nostro paese ha complessivamente “sbagliato” gli investimenti. Qualcosa di cui tener conto, oggi che ci accingiamo a “mettere a terra” un gigantesco piano di investimenti finanziato dal Next Generation EU.
Iniziamo con le definizioni di Istat, che sono eccellenti per il grande pubblico non specialista:
La produttività è comunemente definita come il rapporto tra il volume dell’output e il volume degli input che concorrono alla sua realizzazione. Misura l’efficienza di come i fattori primari, lavoro e capitale, sono impiegati nel processo di produzione per produrre un determinato livello di output. La produttività è considerata un indicatore chiave di crescita economica e competitività, anche ai fini della valutazione della performance economica nei confronti internazionali.
In dettaglio, riguardo alle tre componenti:
La produttività del lavoro è data dal rapporto tra valore aggiunto e ore lavorate; la produttività del capitale è misurata dal rapporto tra valore aggiunto e input di capitale, quest’ultimo calcolato come flusso di servizi produttivi forniti dallo stock esistente delle diverse tipologie di capitale. La produttività totale dei fattori è calcolata come rapporto tra l’indice di volume del valore aggiunto e l’indice di volume dei fattori primari: misura gli effetti del progresso tecnico e di altri fattori propulsivi della crescita, tra cui le innovazioni nel processo produttivo, i miglioramenti nell’organizzazione del lavoro e delle tecniche manageriali, i miglioramenti nell’esperienza e nel livello di istruzione raggiunto dalla forza lavoro.
Dopo le definizioni, veniamo ai numeri. Riguardo alla produttività del lavoro, nel 2019 il valore aggiunto italiano ha avuto crescita nulla, mentre le ore lavorate sono aumentate dello 0,4%. Poiché la produttività è per definizione la differenza tra queste due grandezze, si ricava che la produttività del lavoro è diminuita lo scorso anno dello 0,4%. No buono.
Ma la crescita della produttività del lavoro è stata deludente in tutto il periodo 2014-2019, con un incremento medio annuo dello 0,2%: con un confronto impietoso sia con la media della Ue a 28 paesi che con gli altri maggiori paesi dell’Unione con cui ci confrontiamo.
Fondamentale ribadire alcuni punti, che l’analfabetismo economico di cui questo paese si pasce non riesce a cogliere: la produttività del lavoro non è indice del grado di stakanovismo o di ignavia di un paese. Essa è, invece, il “terminale” di un mix fatto di investimento di capitale, conoscenze, efficienza pubblica. Tutti questi elementi si “scaricano” sulla capacità del lavoratore di produrre valore aggiunto.
Se un lavoratore non ha formazione permanente, considera i nuovi strumenti come minacce, ha un management non particolarmente sveglio, (per il quale è fondamentale timbrare il cartellino, ad esempio), vive in un paese dove i diritti di proprietà non sono fatti rispettare e dove “opera” una pubblica amministrazione in stato comatoso, è inutile prendersela col lavoratore medesimo.
Né serve, ragionando al contrario, sbandierare come titolo di merito il numero eventualmente elevato di ore lavorate, visto che conta la qualità e non la quantità. Quindi, quando qualche anziano sociologo dalle idee confuse pontifica circa il fatto che in Italia si lavora troppo e servirebbe quindi lavorare meno, “come fanno in Germania”, sorridete e passate oltre.
Partendo da questo ragionamento, che vede la produttività del lavoro come “terminale” di capitale e “sistema”, cioè produttività totale dei fattori, Istat ci informa che
Tra il 1995 e il 2019 la crescita media annua della produttività del lavoro è stata dello 0,3%. Il capitale per ora lavorata ha contribuito per 0,4 punti percentuali mentre la produttività totale dei fattori ha fornito un apporto nullo. Il contributo del capitale può essere a sua volta scomposto in quello del capitale materiale non-ICT, pari a 0,2 punti percentuali e quello che incorpora ICT, pari a 0,1 punti percentuali; risulta nullo l’apporto del capitale immateriale non-ICT.
Quindi possiamo dire, semplificando, che il “sistema” non ha aiutato la crescita della produttività del lavoro.
Né i numeri italiani vanno meglio guardando alla produttività del capitale, purtroppo, visto che nel 2019, la crescita dello 0,8% dell’input di capitale si accompagna a una stazionarietà del valore aggiunto, determinando quindi una riduzione dello 0,8% della produttività del capitale. Decisamente deprimente l’andamento della produttività del capitale su un arco temporale molto esteso, quello 1995-2019:
Nell’arco dell’intero periodo 1995-2019 nel nostro paese la produttività del capitale registra un calo medio annuo dello 0,7%, risultante da un aumento dell’input di capitale (+1,4%) superiore a quello del valore aggiunto (+0,7%)
Che è come dire che, in un quarto di secolo, abbiamo reso più che improduttivo il capitale in cui abbiamo investito. Desolante, non trovate? Si potrebbe dire che in questo periodo è esistita una sorta di malinvestment italiano, le cui cause vanno indagate. Un suggerimento lo fornisce la stessa Istat:
L’esame della produttività per tipologia di capitale evidenzia come la discesa riguardi tutte le tipologie di input: la componente relativa alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è diminuita del 2,4%; la produttività del capitale immateriale non-ICT (che comprende la Ricerca e Sviluppo) dell’1,9%; quella del capitale materiale non-ICT dello 0,3%.
Che è come dire che, nel quarto di secolo osservato, la forza lavoro non ha saputo “usare” le nuove tecnologie (ICT), forse perché gli imprenditori non hanno saputo formarla, subendo l’adeguamento tecnologico anziché gestirlo. Solo un’ipotesi, ovviamente. Allo stesso modo in cui, aneddoticamente, sarebbe utile capire quanta produttività di capitale è stata distrutta da “investimenti” tradizionali opportunamente pompati da incentivi fiscali con poco o nessun senso.
Ricordate la “corsa al capannone” delle varie Leggi Tremonti? Cose che accadono, quando si gioca con gli incentivi fiscali e quando il fisco prende il sopravvento sulla gestione. Mi ricorda la corsa di mandrie di risparmiatori italiani verso i piani individuali di risparmio, solo perché pesantemente sussidiati fiscalmente. Un ottimo affare, per le reti di vendita del risparmio gestito. Assai meno per i risparmiatori e per il paese.
Quindi, pensando alla pentola d’oro in fondo all’arcobaleno nota come Recovery Fund, attenzione: si fa a presto a dire investimenti. E si fa altrettanto presto, purtroppo, a dire “ricerca e sviluppo”, sussidiando spesso il nulla. Cioè distruggendo risorse fiscali e il futuro.
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