Il ritorno del PCI, partito cinese d’Italia

Oggi parliamo di quella frangia, o forse qualcosa più di una frangia, di italiani che guardano con evidente ammirazione ai risultati conseguiti dalla Cina in termini di crescita economica, il vero Grande Balzo in avanti, per usare la nota espressione che indicava la fase di prima industrializzazione a tappe forzate, contenuta nel piano industriale maoista del 1958-1961. Molta acqua e altrettanta ideologia è passata da allora sotto i ponti.

Capita, quindi, parlando dello stagno italiano, che Massimo D’Alema, in occasione del primo centenario del Partito comunista cinese, rimarchi lo “straordinario salto verso la modernità e il progresso”, che sarebbe “il merito storico del partito comunista cinese”. Che, detta così, è tagliata un filo grossa.

Il Partito innovatore

Il Partito comunista cinese è entità che è evoluta nel corso dei decenni, ovviamente. Non basta l’involucro a presa stretta sulla società cinese e quel brand che ancora oggi fa scendere qualche lacrimuccia a molti autonominati intellettuali di casa nostra o a esponenti politici di sinistra.

La modernizzazione, si diceva. Quella del Grande balzo in avanti, centrata sulla collettivizzazione, è finita maluccio, e gli storici tendono a ritenerla causa della Grande carestia che ha prodotto alcune decine di milioni di morti per fame. Ma sono dettagli nel Grande Libro della Storia.

Altre grandi riforme, probabilmente la radice dei risultati attuali, vennero con la modernizzazione di Deng Xiaoping, quella del “socialismo con caratteristiche cinesi” o dell'”economia socialista di mercato”, che in pratica era una sorta di liberazione di energie individuali, quindi la rottamazione del collettivismo.

Su tutto, sempre il Partito e la sua supremazia assoluta. Certamente fu dialetticamente astuta la considerazione di Deng sul fatto che la Cina si trovasse, a inizio anni Ottanta, nello “stadio iniziale del socialismo” e quindi ci fosse ancora molta strada da percorrere, prima di arrivare.

Quindi sì, alla fine il partito resta l’alfa e l’omega nella vita del paese, ma muta per non morire ed essere travolto da spinte centrifughe o policentriche. Una sorta di enrichissez-vous, a patto di non disturbare il partito. E qui forse risiede la fascinazione di parte non marginale della sinistra italiana verso la “modernizzazione”. Un tempo era l’Urss, che poi è finita come è finita, ora potrebbe essere la Cina.

A pancia piena

Del resto, nell’era di Xi Jinping, il paese è estremamente assertivo, ha una proiezione di potenza mai raggiunta prima, vede all’orizzonte l’ipotesi (e qualcosa più di un’ipotesi), del declino dell’impero americano, e si comporta di conseguenza.

La Cina ha tolto ottocento milioni di persone dalla povertà, dice D’Alema, e non solo lui. Innegabile. Ora forse c’è più da guardare alle diseguaglianze di una società affluente. Ad esempio, al fatto che il paese sia pressoché privo di reti di welfare, quelle che la sinistra occidentale considera prerequisito a tutto il resto.

Sul fatto che la Cina non abbia un sistema multipartitico, non si notano rilievi e appunti critici da parte dei nostri intellettuali e politici progressisti così affascinati dai risultati economici. Forse perché, alla fine, primum vivere deinde philosophari, e serve avere la pancia piena (ehi, psst: in Cina siamo ben oltre questa fase, da tempo).

E poi, parlando da relativisti non senza qualche ragione, se guardiamo alle profonde diseguaglianze americane, verrebbe fatto di osservare che i diritti umani non sono rigorosamente affermati e tutelati neppure da quelle parti. Tra forma e sostanza, c’è un golfo non piccolo.

Il culto mariano

Sono finiti i tempi in cui la Cina lamentava, suscitando qualche ilarità, la “dittatura dei diritti umani” da parte degli occidentali. Oggi, i numerosi wolf warriors cinesi, che poi sono degli abili troll di partito in azione sui social, possono agevolmente mostrare immagini di scontri razziali e abusi della polizia e sbertucciare gli americani.

L’ammirazione di D’Alema per il “modello cinese”, di qualsiasi cosa si tratti, si affianca all’azione di divulgazione (chiamiamola così) non meno ammirata, svolta da alcuni economisti occidentali, che magnificano il ruolo dello “stato imprenditore” cinese nello sviluppo del paese.

Capofila di questa categoria è Mariana Mazzucato, ormai icona del neoprogressimo internazionale, che ha prodotto una ricchissima pubblicistica (non è chiarissimo quanto “scientifica”) sui meriti dell’azione pubblica nell’economia per fertilizzare il settore privato, e che in un recente passato si è spinta a suggerire un avvenire cinese anche per alcune disastrate realtà aziendali italiane. Di solito, in Italia, non è possibile criticare Mazzucato o anche solo esprimere dubbi sulle sue teorie, senza essere accusati da sinistra di sessismo e invidia per i suoi mirabili achievements. Un vero culto mariano, in pratica.

Il Grillo d’Oriente

Tra i grandi fan di Pechino c’è poi Beppe Grillo, che a intervalli regolari va a prendere il the all’ambasciata cinese a Roma e che giorni addietro ha tentato, con teatrale tempismo, di trascinarsi dietro anche il neo-leader, non ancora cresimato, del neo-movimento, Giuseppe Conte, proprio nel giorno del G7 di Cornovaglia in cui si discuteva della pressante richiesta americana di attuare un contenimento (che in realtà è tentativo di rollback) della Cina.

Conte si è abilmente sottratto alla non casuale tempistica grillesca invocando una sorta di “legittimo impedimento”, rappresentato da provvidenziali “concomitanti impegni”. Tutto bene, forse a Conte serve usare di più il calendario Gmail o equivalenti, quando costruisce l’agenda, ma la pratica rende perfetti. Ma il partito dei cinesi d’Italia è una entità dinamica, alcuni fanno persino il checkout.

Come il felpato diplomatico di nuova carriera, Luigi Di Maio, architetto della firma italiana al memorandum sulla Belt and Road cinese di un’era geologica addietro, che ha minimizzato la vicenda e quindi il ruolo di Grillo. Possibile che per lui, nel nuovo logo del neoMoViMento, l’ipotizzata data 2050 sia l’obiettivo di longevità politica, per “cambiare il paese”.

Non ancora soddisfatto, e dopo aver prodotto sul suo sito una sorta di “dossier alternativo” sulla condizione degli Uiguri cinesi, Grillo ha dato voce e tastiera a un docente universitario di antropologia filosofica e filosofia morale (tanta roba, dunque), il quale si è prodotto in una elaborazione anche pregevole ma casualmente centrata sui temi cari a Pechino, quali la decadenza occidentale e americana nello specifico, e su altri più tradizionalmente no-global, come la denuncia dell’élite cosmopolita e globalizzata che fa strame delle consuetudini locali, spianandole in nome dell’omologazione consumistica.

Insomma, un approccio “sincretistico” per i fedeli dell’antiamericanismo declinato a difesa della Cina, che non è la “vera” minaccia ai nostri valori, qualsiasi essi siano.

Il piede Ue in due staffe

Che la Cina sia stata grande opportunità per l’economia mondiale è un fatto. Anzi, durante la Grande Recessione ha praticamente tenuto in vita la congiuntura mondiale. Ricordiamo, sempre dallo stagno italiano, i remoti tempi in cui da noi si invocavano dazi contro le merci cinesi. Alcuni di quelli che le teorizzavano, al grido “difendiamo anche i diritti umani!”, si sono rapidamente convertiti alla missione del partenariato, spesso dopo aver ricevuto prestigiosi incarichi presso istituzioni cinesi.

Non siamo schizzinosi, comunque: solo i cretini non cambiano mai idea, e alla fine il “peccato originale” di aver fatto entrare “troppo presto”la Cina nella WTO è stato superato con reciproca soddisfazione. Sono rimasti solo alcuni “localisti” e no-global, tra cui alcuni esponenti della sinistra neo-romantica, a denunciare il complotto plutocratico di quel cavallo di Troia fatto entrare nella WTO per abbattere il potere negoziale del Lavoro rispetto al Capitale.

La stessa Ue, oggi, tenta di tenere il piede in due staffe. Compiacere gli americani, che restano in grado di fare molto male a chi si metta loro di traverso, ma senza perdere le relazioni economiche con Pechino. La realtà è sempre più complessa di quanto appaia dai teatrini tv.

Il partito cinese italiano resta piuttosto composito. Puntellato da motivazioni ideologiche piuttosto malferme, quali la fascinazione per quella spinta modernizzatrice che l’Urss non riuscì a consegnare all’umanità, e forse da altre di più terrena gratificazione. Qualcuno trova nel modello cinese lo specchio in cui riflettere le proprie pulsioni autoritarie, e il fastidio per ubbie come i diritti umani e quello strano coso chiamato liberalismo, che tuttavia sarebbe sciocco ritenere tutelati al massimo grado in Occidente. Forse alcuni sognano la nemesi per un paese anarcoide e indisciplinato come il nostro, da rimettere finalmente in riga.

Alla fine, grattando sotto la superficie e la superficialità del dibattito e di alcune ideologie lacere e contuse, dietro la nascita e lo sviluppo del PCI (partito cinese d’Italia) il rischio è quello di trovare l’eterna opzione strategica del “Franza o Spagna, purché se magna”.

Foto: European University Institute from Italy, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

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