Transizione ambientale, divergenza fatale

Quella che segue è una storia di transizione energetica su cui si innestano problematiche di sicurezza energetica nazionale, persistenti squilibri tra domanda e offerta, spesso deliberatamente accentuati dalla transizione e, last but not least, di istanze politiche entro una unione di stati. In breve, tutto quello che serve per generare frustrazione, rivendicazioni e pressione sul portafogli.

Riguarda il Regno Unito, che in questo tempo sta dimostrandosi una sorta di canarino nella miniera per tutto ciò che è la complessità in un quadro di transizione, un template che può essere applicato anche ad altri contesti nazionali o regionali senza particolari adattamenti.

Addio al gas del Mare del Nord

Secondo uno studio del Financial Times, nei prossimi trent’anni le importazioni britanniche di gas sono destinate ad aumentare drasticamente, anche se le riserve del Mare del Nord venissero sfruttate appieno. Si stima, in tale arco temporale, un aumento di importazioni del 70% entro il 2030, destinato a salire all’80% nel 2040 e all’85% il decennio successivo. Almeno, secondo le previsioni di produzione della Oil and Gas Authority, il regolatore pubblico, e del Climate Change Committee, il gruppo indipendente consulente del governo.

Il governo si è impegnato ad assoggettare le nuove licenze di estrazione a “test di compatibilità ambientale”, mentre gli ambientalisti esigono la cessazione immediata e senza condizioni delle approvazioni di nuove esplorazioni. Come prevedibile, in questo braccio di ferro si racchiude tutta la criticità della transizione energetica.

A ciò si aggiunge il fatto che i campi del Mare del Nord, dopo aver toccato un picco di produzione a cavallo del secolo, appaiono ora in una tendenza declinante di lungo termine. A rinforzo, è giunto il “suggerimento” della Agenzia internazionale dell’energia, che lo scorso anno ha chiesto la cessazione immediata di nuovi progetti di esplorazione, per non compromettere l’equilibrio e il cronoprogramma della transizione a net zero delle economie globali, solennemente proclamato nel corso della COP26 di Glasgow.

Il governo Johnson sta cercando un difficile equilibrio tra massimizzazione dello sfruttamento economico dei campi del Mare del Nord e obiettivi di transizione energetica. Lo scorso anno sono state assegnate sei nuove licenze di esplorazione mentre una decina sono in attesa nel biennio 2022-23.

Ma la domanda resta robusta

La cosa più interessante e preoccupante, ma che non rappresenta una sorpresa, è il fatto che la domanda di gas è attesa rallentare assai meno della produzione. In questa dinamica si pone tutta la criticità della transizione ecologica e le conseguenti persistenti pressioni sui prezzi.

I numeri delle stime sono impietosi anche se -come sempre- è necessario prenderli con la necessaria cautela. Lo scorso anno, la produzione britannica di gas nel Mare del Nord è stata di 32 miliardi di metri cubi, secondo le stime della Oil and Gas Authority. Nel 2030 è attesa calare a 17,5 miliardi, per poi flettere a 6,9 e 2,7 miliardi rispettivamente nel 2040 e 2050.

A fronte di ciò, secondo le stime del Climate Change Committee, la domanda domestica di gas toccherà nel 2030 i 56 miliardi di metri cubi, per poi scendere a 32,4 nel 2040 e 18,3 nel 2050. Da questo squilibrio deriva l’impennata di importazioni e i crescenti rischi per la sicurezza energetica, oltre alla sostanziale certezza di persistenti tensioni sui prezzi e del loro mantenimento su livelli strutturalmente più elevati.

Superfluo segnalare la fallacia di composizione: se ogni paese punta a frenare l’eventuale produzione domestica di idrocarburi, disincentivando gli investimenti, ma al contempo si vede costretto a sopperire a tale buco di produzione con importazioni, indovinate che accadrà al prezzo sui mercati globali se la domanda non verrà piegata più della produzione.

Attendendo svolte tecnologiche

Il caso del Mare del Nord britannico è il combinato disposto di un declino “naturale” della produzione e di freni allo sviluppo dell’esplorazione. Condizioni simili sono all’opera un po’ ovunque, nel mondo. Il Regno Unito di suo ci aggiunge una capacità di stoccaggio molto esigua e l’aspirazione della Scozia all’indipendenza, per decenni puntellata dalla bonanza degli idrocarburi, che ora è destinata a venire meno.

Cosa può modificare questo scenario? L’innovazione tecnologica sulle rinnovabili in primo luogo, ad esempio con batterie che aumentino l’immagazzinamento dell’energia. Ma anche, dal versante dei combustibili fossili e della tempistica di loro abbandono, dallo sviluppo di affidabili sistemi di cattura e stoccaggio della CO2, che consentirebbero di prolungare di molto la transizione senza impatti ambientali negativi.

Tutte cose che non appaiono per domani né per dopodomani, anche se la speranza è che la svolta arrivi dall’elevato numero di startup all’opera su cattura e stoccaggio e dai loro finanziatori. Diversamente, ci attendono lunghi anni di criticità economiche disseminate di gravi e crescenti tensioni sociali. È la transizione, bellezza.

Foto di Magnascan da Pixabay

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