Lo scorso anno, l’Iraq Study Group di Baker ed Hamilton aveva suggerito all’Amministrazione di Washington di promuovere il coinvolgimento di Siria ed Iraq nella gestione dei problemi della regione mediorientale, tra i quali figurano la situazione irachena, quella libanese e la crisi israelo-palestinese. Lo scorso martedi, funzionari dell’Amministrazione Bush hanno comunicato che, entro i prossimi due mesi, verranno avviate due serie di incontri tra l’Iraq ed i suoi vicini, inclusi Iran e Siria, a cui gli Stati Uniti parteciperanno, pur senza che ciò implichi negoziati diretti con l’Iran.
Dopo mesi di pressioni da parte del governo di Baghdad, gli Stati Uniti si sono decisi ad aderire ad un’iniziativa che, sebbene mirata esclusivamente a stabilizzare l’Iraq, potrebbe tuttavia aprire le porte ad un dialogo per la sistemazione di ampia parte della regione mediorientale.
Lo spostamento delle posizioni di Washington è significativo, e sembra rappresentare la definitiva presa di coscienza dell’indebolimento geostrategico che gli Stati Uniti hanno dovuto subire dall’inflessibilità della posizione di politica estera perseguita dopo l’11 settembre.
Non sappiamo se questo sviluppo segnerà il definitivo accantonamento della Teoria della Pace Democratica, basata sull’assunto che le democrazie (e segnatamente le democrazie liberali) non entrerebbero mai in guerra tra loro. Questa teoria, che peraltro poggia su dati empirici contraddittori e risultanze non univoche, ha finora guidato la politica estera dell’Amministrazione Bush. Ma certamente su tratta di un suo marcato ridimensionamento.
Come sottolineato in un recente saggio di Paul Saunders e Nikolas K. Gvosdev, tale assunto ha drammaticamente ignorato il fatto che molti regimi arabi, oggi, possono contribuire positivamente agli interessi americani nella regione, quali il processo di pace ed il contrasto degli estremisti, solo nella misura in cui essi sono isolati dalla pressione popolare, cioè nella misura in cui essi divengono antidemocratici.
Ciò che ha fortemente nuociuto alla politica estera statunitense degli ultimi anni è stata la retorica (spesso di segno uguale e contrario a quella del fanatismo islamico) sulla democrazia ed il sostanziale disinteresse, ove non più propriamente disprezzo, per i differenti interessi strategici di altri paesi (spesso anche di quelli considerati democratici da Washington), considerati tout court illegittimi e/o frutto di mancanza di cognizione.
Non c’è dubbio riguardo i benefici di un lavoro comune tra democrazie, ma i valori condivisi non possono sostituire gli interessi comuni, anche tra differenti tipologie di regimi. Da questa considerazione deriva l’approccio realista alla gestione della politica estera che, senza sacrificare i valori fondamentali in cui crediamo in quanto democrazie occidentali, evita al contempo di indebolire la nostra capacità (attuale e prospettica), di promuovere tali valori ovunque sia possibile. E questo non crediamo affatto significhi appeasement, ma solo gestione dei propri interessi vitali, tra i quali ricomprendiamo anche i valori, distinguendo tra tattica di breve e strategia di lungo periodo. Uno schema di questo tipo non potrebbe certamente applicarsi all’ottusa politica estera della sedicente maggioranza di governo italiana, largamente inconsapevole del concetto di interesse nazionale ed imbevuta di valori non propriamente occidentali.
Qualcuno aveva previsto da tempo la necessità che gli Stati Uniti evolvessero verso un approccio di questo tipo. Altri, saccenti e/o ormai autisticamente disconnessi dalla realtà fattuale, hanno preferito lanciarsi in invettive, anatemi e chiacchiere da bar dello sport, riproducendo anche su media nuovi o presunti tali (come i blog) gli stessi luoghi comuni di un certo modo di fare informazione: superficiale e provinciale.