Guerre di religione

Mancano pochi giorni alla celebrazione dell’ultima, piccola guerra di religione italiana. Il 12 maggio, a Roma in piazza Navona si celebrerà il trentatreesimo anniversario del referendum sul divorzio. Una cifra non esattamente tonda ma necessaria agli organizzatori per inseguire e contrapporsi, nella giornata del Coraggio Laico (nientemeno), al Family Day organizzato sempre nell’Urbe, in piazza San Giovanni, dalle associazioni cattoliche, inizialmente in polemica anti-Dico, successivamente modificato in pro-famiglia tradizionale. Fin qui, la nostra posizione sarebbe un classico laissez faire, laissez passer. Se non fosse che queste guerre di religione ci appaiono sempre più come la facile scorciatoia di una società civile del tutto incapace di elaborazioni culturali autonome ed originali, e che necessita quindi di un “precipitato emotivo” immediatamente spendibile per compattarsi su un comune denominatore.

Nei giorni scorsi, l’ennesimo atto di questa guerra di religione ha visto protagonista tal Andrea Rivera, un giovanotto da alcuni frettolosamente definito “comico”, che dal palco dello stucchevole concertone sindacale del Primo Maggio ha ritenuto di dare il proprio contributo alle lotte dei lavoratori sdegnandosi per la mancata celebrazione dei funerali religiosi di Piero Welby, prima di far merenda con alcuni gustosi cavoli portati da casa.

Ora, sdegnati e rattristati per quanto accaduto in occasione della morte di Welby lo siamo stati anche noi, ma senza dimenticare che la Chiesa ha deciso, e non dal giorno dell’elezione di Bagnasco alla presidenza della Cei, di fare la Chiesa. Verrebbe da dire, “dura lex, sed lex“, nel senso che le gerarchie religiose ritengono che essere cattolici, oggi, richieda una certa dose di obbedienza ad una precettistica divenuta meno mondana e più intransigente.

Così stando le cose, ciascuno risponda semplicemente alla propria coscienza: chi è credente faccia il credente; chi è ateo, agnostico, laico faccia l’ateo, l’agnostico, il laico. Tutto bene, quindi? Non proprio, perché tra i due mondi persistono tentativi di reciproca prevaricazione. Da un lato, la morale cattolica vorrebbe informare la legislazione civile del paese ai propri precetti confessionali. Dall’altro i laicisti, versione geneticamente modificata dei laici (termine orrendo e abusato, che utilizziamo in mancanza di migliore e più pregnante definizione), che vorrebbero incatenare il papa, rinchiuderlo a Castel Sant’Angelo e buttare la chiave.

Questi ultimi criticano aspramente la Chiesa, accusandola di essersi messa a fare la Chiesa; organizzano lapalissiane marce contro la pena di morte fino in Piazza San Pietro nel giorno di Pasqua, guidati dal solito guitto ottuagenario che da alcuni decenni replica stancamente se stesso, in un’eterna rappresentazione da logoro musical. Brandiscono cartelli con scritto “No taliban, no vatican“, ma auspicano “un grande gesto da parte del Santo Padre”, magari durante la benedizione Urbi et Orbi, a suggello dell’inevitabile sponsorizzazione mediatica della loro iniziativa, e poi s’incazzano pure se questo gesto non arriva. Questi laicisti annoverano, tra le proprie fila, le neo-femministe che nulla hanno da replicare di fronte alla miserrima condizione femminile nei paesi islamici e nelle autosegregate enclavi musulmane nel cuore dell’Europa, come anche i neo-umanisti che ritengono che la satira dovrebbe essere libera e incondizionata, ma solo quando deride la chiesa cattolica e la fede cristiana in senso lato, mentre parlano di “pessimo gusto” e di necessità di dotarsi perlomeno di codici di autoregolamentazione (i.e., autocensura), quando quella stessa satira viene indirizzata verso altra religione monoteista, diversa da quella ebraica. Free speech à la carte, in sostanza.

Sull’altro fronte, a difesa dei valori cattolici della famiglia, si pongono i credenti, ritenendo (presumiamo) che i diritti economici e patrimoniali delle coppie omosessuali non siano meritevoli di tutela, e che da una pensione di reversibilità attribuita al compagno o alla compagna di una vita emani puzza di zolfo. Tali credenti, comunque meritevoli di rispetto per le loro convinzioni, trovano zelanti avvocati difensori in quella ampia parte di classe politica che, fedele al motto “Parigi val bene una messa“, è parimenti memore che la legittimazione popolare di Numa Pompilio derivava dai suoi abboccamenti notturni con la Ninfa Egeria. Un po’ come i radicali nelle loro periodiche scampagnate in piazza San Pietro, a ben vedere. E poco importa che in Italia della famiglia ci si ricordi solo in prossimità delle scadenze elettorali, e che gli elettori cattolici medesimi soffrano di amnesie selettive, non riuscendo a mandare a stendere, con nome e cognome, i politici responsabili di questo giochetto.

Poi ci sono anche i politici laici ma ipocriti: ad esempio, quelli che licenziano inviando alle Camere il testo del morticino noto come Dico, ma sono talmente vigliacchetti da dire, in sede di presentazione del provvedimento, che esso in realtà serve a nonnine e nipotini, oppure ai vedovi o a chi aiuta le vecchiette ad attraversare la strada. Chi ha mai detto che questo è un provvedimento a favore dei gay? Non loro, e per ribadire pilatescamente il concetto lasciano il ddl alla deriva nel mare magnum dei lavori parlamentari, “perché noi la nostra parte ormai l’abbiamo fatta, approvandolo in consiglio dei ministri“. Perché non proviamo a fare lo stesso per la Finanziaria e i pacchetti (intesi come pacchi di piccole dimensioni) di Bersani?

Dalla categoria di politici para-confessionali, quelli per i quali peccato deve comunque far rima con reato si è poi prodotta, per gemmazione, la categoria degli “atei devoti”, composta anche dagli intellettuali che hanno deciso che la coesione sociale, in un paese in via di avanzata disgregazione come il nostro, possa e debba ottenersi solo attraverso una strategia di creazione di una “moral majority” retta da solide radici cristiane. E via, quindi, con la riscoperta di Blaise Pascal, che nei salotti romani e capalbiesi fa tanto trendy, signora mia.

Ecco perché, come già preannunciato da altri, noi in questa guerra di religione non ci schiereremo e andremo al mare, o in montagna o sul terrazzo di casa. Continuando a sognare una classe politica responsabile delle proprie azioni, ed una chiesa cattolica orgogliosamente libera di difendere i propri convincimenti di fede senza sfruttare l’abuso di posizione dominante che le è offerto dal Concordato. Il giorno in cui tutto ciò avverrà, vivremo in un paese più libero e liberale.

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