di Alessio Di Carlo*
Vent’anni sono trascorsi da quando gli italiani furono chiamati alle urne per via referendaria per dire la loro sulla introduzione del principio di responsabilità dei Magistrati. Era l’8 novembre 1987, una valanga di sì, oltre venti milioni, con una percentuale di consenso superiore all’80%, aprì la strada alla cancellazione di uno dei privilegi più odiosi ed irragionevoli di cui la Casta togata godesse. Legge doveva essere, quindi, e legge fu: appena sei mesi dopo venne approvata dalle camere la L. n. 117 del 13 aprile 1988, solennemente intitolata “Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati.” Sembrava cosa fatta, con l’affermazione di un principio per il quale sarebbe forse dovuto bastare il semplice buon senso anziché scomodare il popolo sovrano.
Senonché, ben presto ci si rese conto che quello che si era consumato con la Legge 117 altro non era se non il più grande inganno mai perpetrato ai danni del Popolo sovrano: una vera e propria truffa, un bavaglio normativo, un capolavoro burocratico, un caso da manuale su come imbrigliare tra ganasce procedurali e limiti normativi la possibilità concreta che un magistrato potesse essere chiamato a rispondere degli errori commessi.
Ma proviamo dunque a penetrare il meccanismo introdotto dalla Legge 13 aprile 1988, n. 117, per scoprire come sia stato possibile che una norma introdotta per garantire la responsabilità del magistrato si sia nella sostanza tradotta nel tradimento dello spirito (e, soprattutto, dell’esito) del referendum.
Innanzitutto sarà bene chiarire che la 117 esclude che il cittadino possa agire direttamente contro il magistrato, imponendogli di chiedere il risarcimento nei confronti dello Stato, inoltrando la domanda alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e non prima che si siano esauriti tutti i gradi di giudizio previsti nel procedimento che ha dato origine al danno lamentato.
Si tratta dei primi, non trascurabili paletti, che demarcano l’ambito di operatività della norma: in particolare, pur potendosene sottintendere lo spirito, sembra assolutamente irragionevole la disposizione per cui il cittadino possa accedere alla richiesta di risarcimento solo come extrema ratio.
Sarebbe un po’ come prevedere – per fare un esempio – che il paziente possa agire contro il medico responsabile colposamente di una cura sballata e dannosa, solo nell’ipotesi in cui le cure successive non riescano a guarirlo: quasi che il protrarsi di una lite (che magari si sarebbe potuta esaurire nel primo grado di giudizio) non costituisca di per sé un onere aggiuntivo, e non solo d’ordine economico, per colui che si sia trovato invischiato in anni e anni di schermaglie giudiziarie anziché definire l’intera vicenda nel corso del primo grado.
Come se non bastasse, la legge 117 prevede anche che l’azione debba essere preliminarmente dichiarata ammissibile in quanto ricompresa nell’ambito di applicazione individuato nell’art. 2. Si tratta di una norma che distingue l’ipotesi del comportamento doloso del magistrato rispetto al caso della condotta meramente colposa: mentre nel primo caso è ipotizzabile senza limiti un danno risarcibile, nel caso della colpa grave tale responsabilità sussiste solo in presenza di situazioni particolari, ovvero:
a) di grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) di affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) di negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) di emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione;
Non occorrono particolari sforzi di fantasia per rendersi conto che le quattro ipotesi contemplate nell’art. 2 non esauriscano affatto i casi in cui il magistrato – per grave negligenza – potrebbe rendersi responsabile della lesione di un diritto meritevole di tutela risarcitoria. Si pensi, esemplificativamente, al caso in cui il magistrato incorra in un errore dovuto ad omonimia che ben avrebbe potuto scongiurare se solo avesse prestto maggiore attenzione alle carte processuali.
Ma non basta: il maggior limite oggettivo è posto laddove si esclude espressamente che possa dar luogo a responsabilità “l’attività di interpretazione di norme di diritto o quella di valutazione del fatto e delle prove”.
Sebbene sia chiaro lo spirito del legislatore – che introdusse una simile “clausola di salvaguardia” al fine di evitare a carico del giudice una eccessiva ingerenza sulla attività interpretativa della norma che applica o dei fatti oggetto di valutazione – risulta onestamente inaccettabile l’esclusione di responsabilità persino nell’ipotesi in cui il giudice interpreti norme di diritto o valuti i fatti in termini contrastanti con qualsiasi criterio logico.
Proprio sulla base di queste argomentazioni, la Corte di Giustizia Europea, con sentenza del 13 giugno 2006, ha censurato la normativa italiana, specificando che “il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale”. “Il diritto comunitario – prosegue la Corte di Giustizia – osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente…”.
Dulcis in fundo – come se la normativa non fosse stata sufficentemente magnanina nei confronti del magistrato – nell’ipotesi in cui la domanda dovesse essere accolta, l’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato danneggiante viene dalla L. 117 sottoposta a due condizioni: che la rivalsa sia esercitata entro un anno e che la stessa non superi – quale che sia il danno risarcito al cittadino – una somma pari ad un terzo dello stipendio annuo percepito dal magistrato al momento in cui il giudizio di danno è iniziato.
Questi, nello specifico, gli aspetti che hanno fatto sì che la legge regolamentatrice della responsabilità civile del magistrato si sia rivelata un tradimento scoperto ed arrogante della volontà popolare espressa.
Resta un principio – quello emerso dal referendum – che da venti anni urla vendetta, con la richiesta della stragrande maggioranza dei cittadini di avere una giustizia alla portata del cittadino e non a misura del magistrato.
Un intervento legislativo si impone, dunque, non tanto per individuare altri, diversi criteri per l’affermazione della responsabilità del giudice quanto, piuttosto, per eliminare dalla L. 117 gli orpelli bizantini di cui è infarcita e giungere finalmente alla applicazione, anche al magistrato, delle ordinarie ipotesi di responsabilità civile previste per tutte le altre categorie di cittadini.
Vent’anni sono passati dall’approvazione di quel referendum, poco meno dalla promulgazione della legge, senza che se ne sia registrato un solo caso di applicazione concreta. Si è già detto in qualche occasione della necessità che un grande movimento di opinione si ponga a base di una stagione di riforma radicale del sistema giudiziario italiano: quale migliore occasione, allora, se non quella di manifestare, proprio l’8 novembre 2007, in occasione dei venti anni dal referendum, per chiedere l’approvazione di una nuova norma che renda giustizia alla volontà espressa dagli Italiani? Venti anni è un lasso di tempo talmente lungo da permettere che perfino nelle Aule di Giustizia di giunga a compimento di un processo. Basteranno venti anni perché nelle Aule della Politica si renda giustizia alla volontà espressa dai cittadini?
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*Alessio Di Carlo, nato nel 1966, vive a Pescara ove svolge l’attività di avvocato dal 1993. Nel 2005 ha fondato il Club Riformatori Liberali “Enzo Tortora” che tuttora presiede. Dirige il sito internet Giustizia Giusta che ha fondato nel 2006 con Mauro Mellini.