“Adesso serve la rivoluzione” scriveva ieri Nicola Porro, invocando una profonda riforma del rapporto tra imprese e lavoratori:
Il principio è semplice: non conta l’azienda, non contano i prodotti o i servizi, men che mai contano i clienti. Anche al costo di morire, ciò che è importante è il lavoratore. Il monarca assoluto del nostro sistema capitalistico, in cui gli utenti, i cittadini non valgono nulla. E sulla base di questo principio si è costruita un’impalcatura giuridica altrettanto assurda: che va dall’intoccabilità dello Statuto dei lavoratori, approvato quasi 40 anni fa, a una giurisprudenza per cui la parte, supposta ex lege debole, il lavoratore appunto, ha sempre e comunque ragione.
Berlusconi sta facendo di tutto per trovare una soluzione ad Alitalia. Ma non perda di vista la grande preda: rivoluzionare il rapporto tra imprese e lavoratori vale cento volte il salvataggio di Alitalia.
Concetti del tutto condivisibili.
E’ vero che il potere di veto e ricatto delle organizzazioni sindacali, sorretto dalla legislazione lavoristica, è non casualmente massimo nei contesti dove l’azionista è pubblico, come nel caso della stessa Alitalia e delle Ferrovie, vere e proprie propaggini della pubblica amministrazione in un contesto contrattuale formalmente privatistico. Ma ampliando l’orizzonte non si può non constatare che il modello italiano di relazioni sindacali è mortalmente statico, poggiando sulla tutela del posto di lavoro anziché del lavoratore. Ecco perché, dall’auspicabile fallimento di Alitalia deve nascere una profonda riflessione ma soprattutto un’azione che promuova un cambiamento radicale nella legislazione lavoristica, da realizzare in parallelo alla riforma della contrattazione collettiva. La via più breve per questa rivoluzione è contenuta nella Costituzione, all’articolo 39:
Art.39 L’organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Un articolo della nostra Carta fondamentale che mai è stato applicato. Come scrivevamo anni addietro,
non esiste alcun “albo” pubblico a cui i sindacati debbano registrarsi; gli statuti interni dei sindacati non sono di fatto assoggettabili ad alcun controllo esterno di legittimità e “democraticità”; i sindacati, in assenza della registrazione, non hanno mai acquisito personalità giuridica, rimanendo di fatto allo stato di associazioni di privati cittadini; la disciplina della rappresentanza proporzionale non è mai stata introdotta, al punto che oggi, sul rinnovo dei contratti collettivi, per attribuire efficacia obbligatoria nei riguardi di tutti (“erga omnes”), attualmente si procede in due tappe:
1. i ministri competenti individuano – sulla base di una direttiva-circolare della Presidenza del Consiglio del 1991 – i “sindacati maggiormente rappresentativi” (criterio-guida è la “consistenza associativa”) da convocare alla contrattazione (sono ogni volta un gran numero):
2. il contratto (nazionale) così stipulato viene recepito in un decreto del Presidente della Repubblica ed esteso a tutti gli appartenenti alla categoria (quindi anche a coloro che non sono iscritti ad alcun sindacato) cui il contratto si riferisce (legge n. 741 del 1969).
In tal modo viene almeno individuata “la retribuzione in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito” (art. 2099 del codice civile, cui si richiama la magistratura), quel salario minimo che intende soddisfare i requisiti richiesti dall’art. 36. Va anche ricordato che il salario minimo così individuato è, secondo l’art. 2113 del codice civile, irrinunciabile: si tratta insomma di un altro diritto indisponibile.
Ecco perché, oggi, è inutile che il premier additi la Cgil al pubblico ludibrio. Guglielmo Epifani non aveva alcun modo di aderire al piano industriale di Cai (ammesso e non concesso che volesse farlo), pur avendo già firmato un accordo-quadro largamente indeterminato, visto che i piloti non sono rappresentati dalla Cgil. Si è trattato di politica politicante e gioco di sponda? Forse sì, forse non più di quanto abbia fatto lo stesso Berlusconi a marzo, quando fu talmente vocale contro Air France da dare fiato alle già stentoree trombe di guerra dei sindacati contro Spinetta.
Ex malo bonum? La maggioranza ha i numeri per produrre la legislazione ordinaria che può dare attuazione compiuta all’articolo 39 della Costituzione, legandolo alla riforma della contrattazione collettiva. Persegua quella via, magari sfruttando l’apparente consenso che gli deriverebbe dalla impopolarità accumulata dei sindacati nella gestione della vicenda Alitalia. Apparente perché gli italiani sono notoriamente strenui riformisti, ma in casa altrui. Ma da qualche parte occorre iniziare, e questa è la via più breve, dato anche il deferente rispetto che a sinistra viene portato alla Costituzione. Andare a vederne le carte (e l’eventuale bluff, se e quando diranno no alla riforma della rappresentanza sindacale) potrebbe essere un’idea.
Il premier ragioni in modo sistemico, se ne è capace, e la smetta di tentare di costruire un nuovo Arco di Trionfo a propria imperitura gloria e memoria. A quello penseranno i posteri, se del caso.