Pensate a questi numeri: secondo un’elaborazione di Merrill Lynch, oggi il mercato dei credit default swap su debito sovrano (quello dei singoli stati, detto in modo meno aulico), sta prezzando una probabilità del 18 per cento di un default della Grecia entro i prossimi cinque anni. Per l’Irlanda siamo al 15 per cento, per l’Italia al 14. La Germania è al 4 per cento e il Regno Unito al 10 per cento. Naturalmente questi dati non sono Sacre Scritture, ma semplicemente inferenze numeriche del valore assunto da un contratto di assicurazione su un evento catastrofico. Le probabilità di insolvenza dell’economia dell’Eurozona restano comunque piuttosto remote, sia per l’improbabilità di una fuga dall’euro, sia perché il manifestarsi di rischi di default di singoli membri di Eurolandia determinerebbe l’intervento di sostegno degli altri paesi, almeno per evitare il peggio nel breve periodo. Ciò tuttavia non esclude il rischio di declassamenti di rating di singoli paesi, come dimostra il downgrade di oggi della Grecia, o il creditwatch con implicazioni negative in cui Standard&Poor’s ha posto di recente Irlanda e Spagna.
Ma i problemi seri sono fuori dall’Eurozona, nel Regno Unito. Il paese è caratterizzato da un settore finanziario sovradimensionato, con pesanti passività esterne, una crisi bancaria domestica, una valuta potenzialmente vulnerabile, condizioni di finanza pubblica di tipo “medio”, cioè non particolarmente fragili ma neppure solide. Alcuni numeri danno la misura della criticità della condizione britannica: gli attivi delle banche britanniche sono pari a 5,3 volte le entrate fiscali del governo, e 117 (centodiciassette) volte le riserve valutarie britanniche: una gigantesca contingent liabilty per il Tesoro di Sua Maestà. Il rischio di una sindrome islandese anche per il Regno Unito ci sta tutto, e l’attuale rating di massima qualità del Regno Unito è ad alto rischio, così come lo sono tutte le emissioni obbligazionarie di banche britanniche effettuate negli ultimi mesi, sotto il manto apparentemente protettivo della garanzia pubblica, per l’altissima probabilità (divenuta ormai certezza) di esplosione dello stock di debito pubblico a livelli italiani (100 per cento del Pil). Date le premesse, si comprende agevolmente il motivo del “buco” di credito verso imprese e famiglie britanniche: i prestatori esteri sul mercato della sterlina sono letteralmente scomparsi, ripiegati sui propri guai domestici, e il volume di fuoco teoricamente mobilitabile dalle banche britanniche si è praticamente dimezzato.
Di più: la sterlina non è, se non in minima parte, valuta internazionale di riserva, ed un suo deprezzamento pilotato (che non si è ancora peraltro neppure riflesso in un miglioramento della bilancia commerciale) potrebbe facilmente trasformarsi in una fuga dalla valuta, mentre il passaggio di Bank of England a forme di easing quantitativo (acquistando ad esempio titoli di stato ed obbligazioni private) rischia di scontrarsi con i trattati europei, che contrastano le violazioni della competitività.