E’ di queste settimane il furioso dibattito sul presunto, progressivo scivolamento degli Stati Uniti verso il socialismo, a causa di progetti di bilancio elaborati dall’Amministrazione Obama. L’attuale era viene comparata all'”età dell’oro” reaganiana, quella in cui la spesa pubblica federale veniva disboscata senza pietà. Riguardo Obama, la sua azione è caratterizzata da luci ed ombre, di cui tentiamo di dare conto su base regolare. Finora si può affermare che l’attuale crisi riduce enormemente i gradi di libertà di qualsiasi amministrazione, rendendo inevitabile un robusto aumento del rapporto tra debito pubblico e Pil, come nel resto del mondo; che il giudizio sull’operato di Obama deve necessariamente focalizzarsi non tanto sull’attuale rapporto deficit/Pil quanto sulla capacità del presidente di riportare i conti verso il pareggio quando l’economia si sarà ripresa. Ad oggi, le proiezioni del Congressional Budget Office non sono rassicuranti indicando che, anche con la crescita a pieno impiego, il rapporto deficit/Pil non riuscirà a scendere sotto il 4 per cento. La responsabilità fiscale di Obama, quindi, dovrà essere dimostrata nei prossimi anni. Ma quello che ci preme evidenziare è che a volte la memoria gioca brutti scherzi: scorrendo i dati storici, infatti, pare proprio non rinvenirsi traccia del Reagan “grande potatore” della spesa pubblica.
Secondo i dati dell’Office of Management and Budget della Casa Bianca, infatti, gli otto anni della presidenza Reagan non hanno inciso significativamente sul livello di spesa pubblica federale in percentuale del Pil, né hanno riequilibrato i conti pubblici. Prendendo come riferimento gli anni 1981-1988, il rapporto deficit/Pil è passato dal 2,6 al 3,1 per cento, con un picco al 6 per cento nel 1983, quando il paese usciva da una recessione piuttosto profonda, dopo che Paul Volcker dalla Fed aveva sradicato l’inflazione con una politica di alti tassi d’interesse. Quindi, durante i due mandati di Reagan (un ciclo economico completo, ed oltre), il deficit strutturale statunitense non è mai stato risanato. L’incidenza sul Pil della spesa pubblica federale, inoltre, è passata dal 22,2 per cento del 1981 al 21,3 per cento del 1988, ultimo anno di presidenza di Reagan. Non esattamente un taglio strutturale.
Ben diversi sono stati i risultati della presidenza Clinton, la cui storia economica andrebbe analizzata in modo meno frettolosamente liquidatorio dai seguaci del conservatorismo fiscale: l’incidenza sul Pil del saldo di bilancio federale, dal 1993 al 2000, è passata da un deficit del 3,9 per cento ad surplus del 2,4 per cento, in coincidenza del picco storico del Nasdaq e del culmine della bolla delle dot.com. L’incidenza della spesa pubblica federale sul Pil è passata, nello stesso periodo, dal 21,4 al 18,4 per cento. La traiettoria di compressione dell’incidenza della spesa pubblica si è accentuata dopo la riforma del welfare, che Clinton contrattò col Congresso controllato dai Repubblicani (che all’epoca erano autentici conservatori fiscali), negli anni del Contratto con l’America di Newt Gingrich.
Poi vennero gli anni di GWB, quelli dell’attacco al cuore dell’America ma anche dell’espansione del Medicare sganciata dai means testing, cioè dalla verifica della capacità reddituale dei richiedenti, e della mancata riforma degli entitlements. Una presidenza di cui si può dire che abbia contribuito a lastricare la strada verso il socialismo di cui oggi alcuni conservatori piuttosto distratti accusano Obama, durante i loro tea parties. Per tacere, evidentemente, delle omissioni regolatorie di tipo ideologico del Repubblicano Alan Greenspan, che hanno favorito pratiche di credito predatorio, o più propriamente truffaldino, con buona pace di quanti danno la colpa del disastro alla legislazione di housing sociale preesistente.
Obama verrà giudicato dalla storia, come i suoi predecessori. L’importante è che la storia sappia far di conto e leggere le statistiche economiche.