Ieri, a sorpresa per i toni utilizzati e la tempistica implicita suggerita, il presidente della Bce, Jean Claude Trichet, ha comunicato al mercato di essere pronto ad alzare i tassi d’interesse ufficiali. Ma nelle attuali condizioni congiunturali, il rischio è quello di sbagliare comunque.
Trichet, dopo aver annunciato una revisione al rialzo per crescita ed inflazione (sulla base di stime non recentissime prodotte dal modello econometrico della Bce), ha ribadito l’importanza di impedire lo sviluppo di aspettative inflazionistiche. Ma come noto oggi non ci troviamo di fronte alla necessità di avviare un “normale” ciclo restrittivo di politica monetaria. La differenza tra Eurolandia e Stati Uniti risiede soprattutto nel fatto che Ben Bernanke ritiene che l’output gap americano (il “buco” nei livelli di attività rispetto al potenziale) sia ancora molto ampio, che le pressioni inflazionistiche dal versante di energia ed alimentari siano comunque transitorie, e che l’elevato livello di disoccupazione sia tale da impedire la formazione di una spirale-prezzi salari.
Nell’area euro, per contro, i prezzi sono più alti, sia a livello complessivo (headline) che core, cioè al netto delle componenti volatili di alimentari ed energia. Nel cuore d’Europa c’è un paese, la Germania, che si trova prossima a condizioni di surriscaldamento congiunturale, con un mercato del lavoro che mostra evidenti segni di stress, soprattutto nel reperimento di figure professionali di elevato profilo. Ancora una volta, quindi, Eurolandia si trova di fronte ad una divaricazione congiunturale che è resa drammatica dalla crisi di debito dei paesi periferici. Alzare il costo del denaro (o stimolare il mercato a farlo sulla base di posizioni ufficiali dei responsabili della politica monetaria, per poi certificare l’esistente) rischia di mandare in definitivo dissesto i paesi che già oggi pagano un elevato prezzo per rifinanziare il proprio debito sovrano. Inoltre,vi sono interi sistemi creditizi (quello greco, irlandese, portoghese, ampia parte di quello spagnolo) che hanno perso l’accesso ai mercati finanziari e sono dipendenti dall’ossigeno dei finanziamenti della Bce, che oggi avvengono a piè di lista ed al tasso fisso dell’1 per cento. Non è un caso, quindi, che ieri Trichet abbia rassicurato circa la prosecuzione delle operazioni di MRO (Main Refinancing Operation) al tasso dell’1 per cento.
La posizione della Bce è quindi molto difficile: sappiamo che Trichet ed i suoi colleghi osservano con attenzione i breakeven inflation rates, cioè il tasso d’inflazione implicito nei titoli di stato ad essa indicizzati. Questo indicatore è in costante ascesa ma andrebbe valutato con cautela, trattandosi di una tipologia di strumento finanziario non liquidissimo. Inoltre, il tasso d’inflazione di Eurolandia riferito solo ai servizi (che rappresentano parte rilevante del paniere di acquisti) resta su livelli poco superiori all’1 per cento, e senza un trend preciso. E ancora, gli aggregati monetari mostrano da tempo un trend di decelerazione piuttosto rassicurante per i rischi inflazionistici. Si pensi alla massa monetaria M1, la cui variazione annua destagionalizzata era in gennaio del 3,2 per cento, dopo essere stata dell’11,5 per cento a gennaio 2010 mentre M3, dopo essere risalita dallo zero toccato al nadir della crisi, ha ripreso a flettere da novembre, attestandosi a gennaio ad un esile più 1,7 per cento tendenziale.
Il rischio, quindi, è che la Bce si disinteressi dell’inflazione core e si concentri solo su quella complessiva, che per natura è molto volatile. Se così fosse, l’Eurotower dovrebbe riprogrammare il proprio gioco educational sulla politica monetaria, che mostra chiaramente che non è l’inflazione complessiva quella che andrebbe gestita, soprattutto in presenza di shock dal lato dell’offerta su alimentari ed energia. L’unica spiegazione possibile è che la Bce tema second round effects sul costo del lavoro tedesco. E tanto peggio per chi non cresce come Berlino.
Quali le prospettive per il nostro paese? Le solite: la crescita è troppo bassa rispetto al costo del debito, e quindi il rischio di sforamenti nei conti pubblici aumenta, e con esso quello di una spirale di debito. In questa circostanza i mercati tendono a penalizzare il merito di credito sovrano, aumentando i differenziali con la Germania ed allargando i livelli di credit default swap, creando circoli viziosi.
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